Caro direttore, «il futuro non nasce da solo» era lo slogan con il quale abbiamo avviato un anno di indagini e ricerche sul futuro della Democrazia. Abbiamo iniziato ottimisti, man mano ci siamo ritrovati disillusi e, prima di battere in ritirata trasformandoci in nichilisti, abbiamo rintracciato un ingrediente segreto, e una possibile soluzione.
L’ingrediente è presto detto. Per cambiare le cose e difendere il sistema che noi occidentali abbiamo coniato e che oggi è minacciato dalle autocrazie che dominano nel 72% del globo serve la determinazione degli individui, l’energia del contesto, la fiducia degli altri, di chi ci sta attorno e ci guida o ci guarda, ma è fondamentale quella componente introvabile e preziosissima, raramente oggetto di formazione adeguata, che è la capacità di sbagliare e di accettare l’errore. Desideriamo e teorizziamo comunità, il magico mondo dello stare assieme, della solidarietà ma poi ci affanniamo a primeggiare per vedere il nostro nome sul gradino più alto di un podio tanto effimero quanto accecante.
È in questa rincorsa ai numeri uno, a tagliare il traguardo per primi e a guardare gli altri come uno strumento della nostra affermazione, e non una parte della stessa, che nasce un senso profondo di fatica, frustrazione, rinuncia. È il germe delle autocrazie domestiche, dell’abdicazione al nostro ruolo di cittadini, sul quale certa politica incardina il suo percorso, chiedendo fiducia piena e delega in bianco, mentre l’altra politica argomenta, si sforza, si interroga ma non trova ancora il linguaggio e la sostanza di un’alternativa. Ci sono tuttavia alcune pratiche in controtendenza.
Nel mondo, in tantissime parti del mondo, dall’Irlanda al Canada, dalla Francia alla Corea del Sud, invece che rinunciare i cittadini si stanno dando da fare e non attendono i salvatori della patria, i numeri uno, ma affiancano i volenterosi che si sono impegnati in politica attraverso uno strumento semplice e decisivo come le Assemblee Cittadine. Mini parlamenti autoeletti in ambito locale che, rappresentando tutte le diverse comunità di un luogo, si trovano, dibattono, si informano e deliberano. Cioè prendono carta e penna, o mail e tastiera, e scrivono raccomandazioni che a volte impongono dei temi alla politica locale o nazionale, avviano processi referendari, integrano le commissioni delle varie istituzioni gettando il seme della partecipazione diretta proprio all’interno di quel processo che determina le leggi che valgono per tutte e tutti. Se altrove queste pratiche hanno consentito delibere su temi decisivi come il diritto alla casa, la qualità dell’aria, una migliore viabilità o i servizi essenziali per una vera parità di genere perché non possiamo renderli vincolanti anche da noi?
Se la crisi della Democrazia non si vince arretrando ma rilanciando, serve mettersi d’accordo sugli ingredienti di questo rilancio. Donne o uomini soli al comando appaiono come sirene illusorie e una pratica efficace per polarizzare ancor di più la società e aggirare ogni forma di confronto. Mentre una relazione più trasparente e continuativa tra i bisogni dei cittadini e gli strumenti in mano alle istituzioni è un rilancio che ha in sé quella componente che nessuna intelligenza artificiale potrà mai avere, l’errore. Che è accettazione, rischio, umanità. La strada, una strada possibile, per ricomporre i cocci dell’ottimismo perduto e ripartire dalla politica.

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