Il tema della crisi di competitività dell’Europa è in agenda da tempo. Le prime grida d’allarme risalgono al decennio scorso, quando l’Unione europea faceva i conti con le ricadute della crisi finanziaria. Poi venne la pandemia. Da allora paesi membri e Commissione europea hanno aumentato gli investimenti pur di recuperare il terreno perso. Ma quanto efficacemente? Un rapporto appena pubblicato lascia intendere che a questo ritmo l’Europa non avrà mai un proprio Chat GPT.
“L’Unione europea sta perdendo la corsa all’innovazione, rinunciando al benessere economico e all’influenza normativa e geopolitica. La sua totale assenza nel gruppo delle prime 20 aziende tecnologiche e delle prime 20 start-ups è inquietante”, spiega Jean Tirole, Premio Nobel e presidente della Toulouse School of Economics, una delle tre istituzioni, insieme all’Istituto IFO di Monaco e all’Università Bocconi, ad avere preparato una impietosa radiografia della situazione europea.
Cominciamo dalle cifre. Sul fronte pubblico gli investimenti in Ricerca & Sviluppo sono oggi ai livelli americani, intorno allo 0,7% del prodotto interno lordo. Sul versante privato, invece, il ritardo è notevole. Secondo la relazione la spesa delle aziende è pari all’1,2% del PIL, rispetto al 2,3% negli Stati Uniti. C’è di peggio. Mentre gli americani spendono nei campi più innovativi, ossia il grande mondo digitale, gli europei continuano a investire nei settori più tradizionali.
Una tabella pubblicata nel rapporto, un volume di oltre 50 pagine, è straordinariamente significativa. Nel 2003 i principali investitori negli Stati Uniti erano Ford, Pfizer e General Motors, così come in Europa erano Mercedes-Benz, Siemens e Volkswagen. Nel 2022, mentre la lista europea era rimasta immutata (Bosch aveva sostituito Siemens), oltre Atlantico erano saliti alla ribalta Alphabet, Meta e Microsoft, scalzando le case automobilistiche.
“Il vantaggio comparativo dell’Unione europea nel settore automobilistico – notano i ricercatori nel rapporto pubblicato oggi, mercoledì 10 aprile – è preoccupante: nonostante i massicci investimenti in R&S, l’industria automobilistica europea rischia di essere comunque scavalcata dai produttori statunitensi, e anche da quelli cinesi. I produttori stranieri possono sfruttare la loro leadership nelle tecnologie elettriche e di guida autonoma”.
A curare il rapporto per parte italiana è stato il nuovo istituto della Bocconi dedicato all’elaborazione di politiche europee (l’Institute for European Policymaking). Il centro-studi non studia solo l’esistente, propone soluzioni. A proposito del ritardo europeo, il suo direttore Daniel Gros dà a tutta prima una spiegazione culturale: “Il vecchio in Europa non muore. Viene conservato. Con il risultato che il nuovo non trova spazio”. La tendenza alla gerontocrazia vale anche per gli investimenti.
C’è di più, naturalmente. La relazione mette l’accento sul fatto che il 90% degli investimenti europei in R&S avviene a livello nazionale, non a livello europeo. Oltre alla mancanza di un volano comunitario, il rapporto nota che la strategia europea investe poco nei settori più innovativi, ed è troppo spesso influenzata da scelte politiche. Lo stesso, probabilmente, può dirsi a livello nazionale, soprattutto in quei paesi dove domina il familismo e il clientelismo.
Gli Stati Uniti poi hanno iniziato prima dell’Europa a credere alle nuove tecnologie. “Godono oggi di notevoli economie di scala, difficili da recuperare, a meno che non si usino gli strumenti della Cina”, spiega l’economista tedesco, riferendosi ai generosi sussidi cinesi. Si legge nel rapporto: “Oggi, il divario transatlantico è particolarmente ampio nello sviluppo di software, dove le aziende statunitensi rappresentano il 75% del totale globale, rispetto al 6% della UE (meno della Cina)”.
In questo senso, la relazione mette in luce anche le difficoltà nel mettere a disposizione dei consumatori nuove tecnologie. “C’è in Europa più attenzione che negli Stati Uniti ai risvolti legati alla privacy e alla gestione dei dati”, spiega ancora Daniel Gros. Come detto, il rapporto contiene potenziali soluzioni, dirette ai policymakers. Tra le altre cose, mentre l’Europa si appresta a un cambio di legislatura, esorta a ridurre il controllo politico sulle scelte d’investimenti.
La relazione giunge mentre gli ex presidenti del Consiglio italiani Enrico Letta e Mario Draghi stanno preparando due rapporti sullo stato dell’economia europea. Nel frattempo, è tornata in auge l’idea di completare il mercato unico nel mondo della finanza. Sempre in chiave culturale, notava nei giorni scorsi a questo riguardo l’economista belga Mikael Petitjean, professore all’Università cattolica di Lovanio: “L’Europa mette in sicurezza il proprio risparmio, piuttosto che rivitalizzarlo”.

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