Il summit che si tiene oggi a Sharm el Sheikh presieduto da Donald Trump e dall’egiziano al-Sisi, ora pone fine al terribile conflitto di Gaza e riporta a casa gli ultimi ostaggi israeliani. Ma è, nelle intenzioni, molto di più
Un «nuovo inizio»? Ci sono momenti nella storia in cui sembra che stia cambiando tanto, che una radicale discontinuità rispetto al passato sia in atto. Il summit che si tiene oggi a Sharm el Sheikh presieduto da Donald Trump e dall’egiziano al-Sisi, con la partecipazione di tanti capi di governo, è uno di quei momenti. Salvo incidenti dell’ultima ora pone fine al terribile conflitto di Gaza e riporta a casa gli ultimi ostaggi israeliani. Ma è, nelle intenzioni, molto di più. Delinea, anche se i contorni sono nebulosi, un percorso di pacificazione. Nelle intenzioni dovrebbe porre le basi per un congelamento sine die della questione israeliano-palestinese. Un congelamento dal quale, dopo una lunga fase di transizione, potrebbe/dovrebbe nascere una entità palestinese autonoma in grado di vivere pacificamente accanto a Israele.
Se quel percorso di pacificazione risultasse davvero praticabile, ne scaturirebbero grandi conseguenze per l’intero Medio Oriente. In momenti come questo bisogna chiedersi: chi guadagna e chi perde dal tentativo di pacificazione in corso? Cosa faranno gli sconfitti per contenere le perdite o per ritornare in gioco? E occorre stare attenti a non commettere un errore: se pure, come è inevitabile, l’attenzione di tutti, in presenza di eventi come questo, si concentra sui capi di governo non bisogna dimenticare il peso che avranno, con i loro comportamenti, le persone comuni le quali,a migliaia e migliaia, sono coinvolte direttamente (gli israeliani, i palestinesi) o indirettamente (il mondo arabo, turco, iraniano) nell’evento in corso.
La lista di coloro che appaiono (al momento) i vincitori è chiara: innanzitutto Donald Trump, l’architetto del piano di pace. Ha confermato, ma in modo diverso dal passato (in versione America First) il ruolo dell’America come «nazione indispensabile». Vincitori sono le potenze arabe sunnite, le uniche (Qatar e Turchia in testa) che potevano torcere le braccia di Hamas e imporle di trangugiare un accordo che, al di là del ridimensionamento militare ottenuto da Israele con le armi, la ridimensiona anche politicamente. Vincitore è Israele che vede ripristinate condizioni di relativa sicurezza e, inoltre, può portare a compimento il processo, in atto da tempo, di normalizzazione dei rapporti con le potenze arabe sunnite.
Un destino, quello di Israele, opposto a quello di Hamas. Hamas, dopo il 7 ottobre e l’invasione di Gaza, con le sue terribili conseguenze distruttive, aveva vinto sul piano propagandistico pur perdendo su quello militare. Ora perde anche sul terreno politico. Nel caso di Israele, per contro, pur vincendo con le armi, aveva perso la battaglia propagandistica, era ormai rifiutato dal mondo. Questa frattura reputazionale non verrà facilmente riassorbita ma ora, comunque, Israele vince : i suoi nemici mortali sono, al momento, sconfitti. E i rapporti con i regimi arabi sunniti sono ormai normalizzati. Non tutta Israele, per la verità, festeggia: la destra religiosa ultraortodossa, contraria al piano Trump , va annoverata fra i perdenti. Vincitori sono i Paesi europei che hanno un interesse vitale alla stabilizzazione/pacificazione dell’area. C’era, interessi economici a parte, il rischio che il prolungamento della guerra a Gaza provocasse ondate destabilizzanti anche in Europa.
Può non piacere ai moralisti ma fra i vincitori va annoverato anche il business. Gli investitori occidentali, americani ed europei, intravvedono grandi possibilità, sperano di sfruttare i vantaggi del processo di pacificazione. Chi condanna questo aspetto non capisce quanto possa concorrere a stabilizzare un processo di pace l’ampliamento degli affari e delle possibilità di profitto che il passaggio da situazioni di guerra a situazioni di pace favorisce.
Lo sconfitto numero uno è l’Iran sciita. Sono stati messi fuori gioco o comunque fortemente ridimensionati Hamas e Hezbollah, i suoi principali bracci armati nel conflitto con Israele, ha perso il controllo della Siria, è costretto a leccarsi le ferite per il ridimensionamento della sua forza militare a causa dei durissimi colpi ricevuti da Israele e dagli Stati Uniti. Ed è accerchiato da potenze sunnite che, proprio contro l’Iran, hanno scelto, prima con gli Accordi di Abramo e ora con l’adesione al piano Trump, di abbandonare quel «fronte del rifiuto»(di Israele) che ha condizionato la storia del Medio Oriente dal ’48 in poi. Però sull’Iran non conviene spegnere i riflettori. Fin quando durerà il regime degli Ayatollah, l’Iran resterà un centro di destabilizzazione nell’area e sicuramente farà tutto ciò che è ancora nelle sue possibilità per sabotare il processo di pace.
C’è infine la principale incognita. Come reagiranno tutti coloro che non sono presenti al vertice di oggi in Egitto? Che cosa si potrà fare con i tanti palestinesi, militanti o meno di Hamas, cresciuti fin da bambini odiando Israele con tutte le loro forze? Sarà possibile offrire loro una alternativa di vita? E che cosa accadrà nelle piazze arabe nei prossimi mesi e anni? I regimi sunniti non sono democrazie e ciò che decidono i loro capi non coincidono necessariamente con gli orientamenti delle persone a quei regimi assoggettati. La pacificazione nei rapporti fra Israele e i Paesi sunniti è decisa dai governi ma è noto che i sentimenti diffusi nel mondo arabo non sono al momento in sintonia con quelle decisioni. Quali conseguenze ne discenderanno per quei regimi nei prossimi mesi ed anni?
Da ultimo, va fatta una osservazione su Israele. C’è chi dà ormai per definitiva la spaccatura fra un Israele laico , desideroso di pace, e un Israele ultra-religioso di tutt’altro orientamento. Ma in politica non c’è nulla di definitivo. Se il senso di sicurezza degli israeliani crescerà, questo non dovrebbe avere conseguenze anche sugli atteggiamenti degli elettori israeliani?
Luci e ombre insomma. Le luci vanno guardate con speranza. Le ombre invitano alla cautela e alla prudenza.
