Gli attacchi della Lega al presidente della Repubblica,  poi in parte corretti, danno l’idea di un Paese ancora inaffidabile

Si dirà, dopo gli attacchi della Lega a Mattarella: è la campagna elettorale, che volete farci? Non sfugga quanto di positivo c’è in questo ragionamento. Esprime la voglia di derubricare, di confermare che la democrazia è salda, che l’unità nazionale è un pilastro, e che non saranno battute estemporanee e sguaiate a minarla. Certo però quello che è successo il 2 giugno, Festa della Repubblica, è molto di più di una scivolata sgradevole. Eccola la frase di Sergio Mattarella: «Con l’elezione del Parlamento europeo consacreremo la sovranità dell’Unione». Altro non è che un riferimento esplicito all’articolo 11 della Costituzione, della quale è il primo garante. Claudio Borghi, leghista con un eloquio che non conosce sfumature, insorge e chiede le dimissioni. Il suo segretario nonché vicepresidente del Consiglio, Matteo Salvini gli dà man forte, magari sperando di raggranellare qualche voto. Salvo in seconda battuta correggersi dicendo che il suo pensiero è stato travisato, e poi garantire al presidente il rispetto suo e del suo partito.
La chiudiamo così? Magari ci piacerebbe dimenticare presto questa pagina spiacevole, ma purtroppo non dipende solo da noi. Gli strappi istituzionali non vanno via con un bucato, lasciano cicatrici, e contribuiscono a incollarci addosso un giudizio, che con tanta fatica abbiamo combattuto: «L’Italia è così, è inaffidabile».
Per tanta parte è un luogo comune inaccettabile, ma episodi con quello dell’altro ieri aiutano a cementarlo, a farlo diventare duraturo.
Il rischio della retorica è dietro l’angolo, ma è un fatto che il nostro Paese è cresciuto tutte le volte che la serietà e la convinzione di avere un destino comune hanno prevalso. Alcide De Gasperi, che con la sua frase «Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alla prossima generazione», ha provato ad indicare la strada. Enrico Berlinguer che dialoga con monsignor Bettazzi. Aldo Moro che invitava: «Pensateci bene, cari amici, siate indipendenti, l’obiettivo è il dopodomani». La prima Repubblica, che pur tra tante storture ha saputo fare quadrato per sconfiggere il terrorismo. Carlo Azeglio Ciampi, che ha restituito alla parola Patria il senso di un patrimonio di tutti. Mario Draghi, che ha saputo ottenere un consenso generale nello schierare l’Italia dalla parte dell’Ucraina aggredita da Putin.
Non era scontato. Non vale solo per i leader del passato o per i governi tecnici. Tanti sarebbero gli esempi, in tutti i partiti, che hanno spinto l’Italia sulla strada della serietà e dell’affidabilità, che è quella che più paga, soprattutto nella difesa dell’interesse nazionale.
Giorgia Meloni ha lavorato in silenzio per convincere il suo vice, Matteo Salvini, a fare marcia indietro. Non sarebbe stato male però, a caldo e subito dopo l’attacco, se Palazzo Chigi e i presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama avessero dato una risposta istituzionale. Scontate le critiche delle opposizioni, l’unico a dire esplicitamente no è stato l’altro vicepresidente, Antonio Tajani. Una reazione comune sarebbe stata preziosa, tanto più adesso, con il dibattito sulla forma di governo, il premierato, che rischia di spaccare in due il Paese.
Ci siamo, sabato e domenica alla fine si vota. Non è un mistero per nessuno che i leader si siano sfidati soprattutto guardando alle cose di casa nostra. Prevalere serve a consolidare la maggioranza, o a rinvigorire le opposizioni. Aiuta a regolare i conti all’interno degli schieramenti, decidendo a suon di voti chi comandaPermette anche, a chi si afferma, di mettere a tacere le fronde interne che agitano buona parte delle forze politiche. Ma è per l’Europa che si vota. È naturale che ognuno lavori per potenziare le proprie alleanze internazionali. Ma è certo anche che entro pochi mesi matureranno scelte importanti: il presidente della Commissione europea, i commissari che avranno le deleghe più significative, le mille decisioni necessarie per reggere il confronto con gli altri continenti. Non c’è dubbio che un Paese diviso e con il marchio dell’inaffidabilità, si candidi ad ottenere assai meno di quanto l’Italia meriterebbe.

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