
Dall’anno scorso, gli arrivi non fanno che diminuire e non è chiaro da cosa dipenda. In ogni caso è un trend che rischia di non durare, anche per colpa di Donald Trump
Già dall’anno scorso, gli arrivi nell’UE sono in calo lungo tutte le principali rotte migratorie e, secondo Frontex, agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, in alcuni casi si tratta di cali considerevoli. Nel primo trimestre del 2025, ad esempio, si sono registrate diminuzioni del 64% lungo la rotta balcanica occidentale e del 59% lungo la rotta mediterranea centrale che porta in Italia. In Austria, invece, nel primo quadrimestre dell’anno le richieste di asilo sono calate ben del 35%.
Da cosa dipende? Secondo quanto risponde l’esperto tedesco Steffen Angenendt al quotidiano austriaco STANDARD, non certo dall’inasprimento delle misure adottate da paesi europei come Germania e Austria. Angenendt, dell’organizzazione svizzera Migration Experts Group, è infatti convinto che questa tendenza non sia dovuta alle misure prese dai singoli stati (il rafforzamento dei controlli alle frontiere per esempio), né tantomeno al presunto effetto deterrente del dibattito sulle espulsioni verso Siria e Afghanistan oppure al moltiplicarsi dei tentativi di esternalizzazione delle procedure d’asilo (ad esempio quello che l’Italia, nonostante tutte le perplessità giuridiche, ha intrapreso con l’accordo con l’Albania). Per Angenendt, ben più di tutto questo contano “gli eventi che si verificano nei paesi di origine e di transito”.
Nuovi accordi
La Serbia, ad esempio, su pressione dell’UE ha inasprito le politiche in materia di visti, mentre dall’anno scorso la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen persegue una politica di accordi che punta ad impedire gli ingressi nell’UE affidando ai paesi vicini il compito di buttafuori. Già da un decennio l’UE ha concluso un simile accordo con la Turchia e sia l’Europa che l’Italia collaborano da tempo con le milizie libiche. A questo si aggiungono accordi con paesi come la Tunisia, la Mauritania e l’Egitto. Lo scambio è semplice: iniezioni di denaro e promesse di investimenti in cambio di frontiere blindate.
I partner dell’Europa, però, sono estremamente brutali: le terribili condizioni dei campi dell’orrore libici sono ben documentate da anni, mentre per quanto riguarda la Tunisia le organizzazioni per i diritti umani segnalano l’abbandono di migranti nel deserto. Gli esperti dell’ONU invece denunciano le attività della guardia costiera tunisina: nell’intercettare i migranti in mare, infatti, compie manovre pericolose che hanno già provocato centinaia di morti. Pare che affondino intenzionalmente le imbarcazioni dei migranti, che sparino loro addosso e li picchino.
È improbabile, però, che questo basti per abbandonare la politica degli accordi: “L’UE cercherà comunque di mantenersi in buoni rapporti con chi governa questi paesi,” osserva Angenendt. “A lungo termine, questi partner diventeranno sempre più importanti. Il che vuol dire anche che dipenderemo sempre di più da loro.” Tanto più fondamentale, perciò, monitorare in maniera trasparente il rispetto dei diritti umani, come previsto dagli accordi stessi.
Nuove battaglie in Libia
Perché gli accordi reggano, però, l’UE è costretta ad augurarsi che i paesi coinvolti mantengano una certa stabilità. La situazione è particolarmente delicata in Libia: il paese nordafricano, sprofondato in una guerra civile dopo la caduta di Muammar Gheddafi nel 2011, è infatti conteso tra due governi e innumerevoli milizie armate. Dopo mesi di relativa tranquillità, a maggio nella capitale Tripoli la situazione. Secondo Matteo Villa dell’ISPI (Istituto italiano per gli studi di politica internazionale), però, questo scenario al momento non sarebbe probabile: “L’Italia sta prendendo volutamente le distanze per poter mantenere buoni rapporti con tutti gli attori politici tripolini”. L’obiettivo di Roma sarebbe appunto quello di mantenere buoni rapporti con tutte le milizie “che potrebbero rivelarsi utili, sia nel settore energetico che per quanto riguarda le questioni migratorie”.
Generalmente, spiega Villa, l’instabilità in un primo momento produce un calo delle partenze a cui poi può seguire un nuovo aumento, che però dipende da vari fattori. In ogni caso, ora come ora non sarebbe in atto né il primo né il secondo scenario, ma piuttosto una “situazione relativamente stabile che si attesta su numeri comunque alti e nella quale, negli ultimi mesi, si riscontra una leggera tendenza al rialzo”. In effetti, recentemente il Ministero dell’Interno italiano ha comunicato un nuovo aumento degli arrivi tra aprile e maggio, che il ministro Matteo Piantedosi, dicendosi preoccupato, ha attribuito agli sviluppi libici.
Un caso delicato per Roma
In realtà, Piantedosi dovrebbe preoccuparsi anche di un’altra questione: a gennaio, infatti, eseguendo il mandato di arresto emesso dalla Corte penale internazionale (CPI) per crimini di guerra, l’Italia ha arrestato Njeem Osama Elmasry, allora capo della polizia giudiziaria libica, per poi rilasciarlo e riportarlo in Libia di lì a poco, suscitando grande indignazione. È risultato evidente che il governo di Giorgia Meloni non voleva rischiare l’accordo con la Libia sull’immigrazione per via di un arresto. Solo che adesso Elmasry è ricomparso a capo della milizia Rada, coinvolta nei recenti scontri a Tripoli. Se questa lotta di potere dovesse portare a un’ulteriore destabilizzazione del Paese e, di conseguenza, a nuovi flussi migratori verso l’Italia, ciò sarebbe da imputare, almeno in parte, allo stesso governo di Roma.
Nel monitorare la situazione della Libia non bisogna dimenticare il suo vicino meridionale, il Sudan, dove una guerra civile sta provocando la più grave crisi di rifugiati al mondo. Si potrebbe ipotizzare che molti di quei profughi tenteranno di raggiungere l’Europa passando per la Libia. Angenendt, però, non è di questo avviso: “Si tratta dei più poveri tra i poveri: spesso non riescono neppure a raggiungere i paesi sicuri confinanti e neanche le zone sicure all’interno del paese stesso”. Alcuni di loro, aggiunge, probabilmente riusciranno ad arrivare in Europa, “semplicemente perché qui i profughi sono tantissimi. Ma non si riverseranno certo in massa sul nostro continente”.
Anche Gonzalo Fanjul del Barcelona Institute for Global Health non ritiene che ci saranno gravi ripercussioni sull’UE. “Conflitti come quelli in Sudan o a Gaza provocano movimenti migratori che non toccano l’Europa, ma al massimo – e neppure sempre – i paesi confinanti”.
Tagli agli aiuti
Le cose stanno diversamente, spiega Angenendt, per quanto riguarda “l’abolizione di fatto della cooperazione internazionale statunitense”. Si tratta di una delle tante controverse decisioni di Donald Trump, che ha praticamente smantellato USAID, l’agenzia statunitense per la cooperazione internazionale. I fondi provenienti dagli Stati Uniti rappresentavano fino al 40% del bilancio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR): “Erano essenziali per gestire la questione rifugiati, soprattutto nei paesi confinanti con quelli di partenza”. Angenendt sottolinea che anche la Gran Bretagna ha ridotto il proprio budget in questo settore, come del resto ha fatto l’Austria.
Si tratta di decisioni “assolutamente miopi”, commenta Angenendt rievocando il 2015. All’epoca, la grande crisi europea dei rifugiati e dei migranti cominciò perché, una volta esauriti i fondi per un’adeguata assistenza nei paesi vicini alla Siria, molti siriani si misero in viaggio verso l’Europa. E adesso, avverte Angenendt, rischiamo che nel breve e medio termine la storia si ripeta. E dobbiamo chiederci se in quell’evenienza i paesi che hanno siglato accordi con l’UE riusciranno ancora a fungere da “buttafuori”.
La via spagnola
Non tutti i paesi dell’UE, però, puntano su deterrenza, difesa dei confini e tagli agli aiuti. A fine maggio, il governo di sinistra spagnolo, ha infatti annunciato un’imminente semplificazione della normativa sul rilascio dei permessi di soggiorno e di lavoro. In questo modo ci si aspetta di sanare la situazione di circa 900.000 immigrati nel giro di tre anni: una misura che, secondo il ministro dell’immigrazione Elma Saiz, non è soltanto umanitaria, ma anche economica.
Benché la sua economia sia in forte espansione da anni, infatti, anche la Spagna, come molti altri stati dell’UE, deve fare i conti con la carenza di manodopera. “In che modo,” si chiede Fanjul “l’Unione Europea può organizzare la migrazione di manodopera di cui ha urgentemente bisogno?”. L’accesso dovrà necessariamente avvenire attraverso canali legali, regolamentati e sicuri. “E invece nel complesso i paesi europei stanno andando nella direzione sbagliata”. Le eccezioni positive sono poche; una è la Spagna che “cerca di gestire i movimenti migratori per perseguire al meglio i propri interessi economici, agendo in modo più corretto di altri paesi”.