11 Febbraio 2025
tecnologia

L’intelligenza artificiale è il nuovo campo di battaglia. Competizione tra superpotenze e rischi tech. E L’Europa?

Ci sono due conflitti al cuore dell’intelligenza artificiale che si sta sviluppando sulla costa del Pacifico degli Stati Uniti e dall’altra parte dell’oceano, in Cina. Il primo riguarda la competizione fra le due superpotenze. Il secondo, più subdolo, tocca le scelte che forse è già tardi per compiere quanto alla velocità a cui il genere umano vuole avanzare nello sviluppo di capacità per certi aspetti superiori a quelle umane; perché il rischio qui, secondo alcuni, è di perdere il controllo.
Questi due conflitti si influenzano a vicenda, al punto da avere aspetti in comune. Né in un caso né nell’altro, probabilmente, la situazione sta proprio nei termini dichiarati dagli attori in gioco ma entrambe sono brutali partite di potere, senza risparmio di colpi.
Che lo scontro sia anche geopolitico, lo fa pensare il fatto che negli ultimi giorni dalla Cina siano stati rilasciati ben due modelli di intelligenza artificiale presentati come superiori ai concorrenti americani. Proprio adesso, subito dopo il trionfale ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Proprio nei giorni in cui il presidente mette la firma su un progetto (privato) di investimenti da 500 miliardi di dollari per consolidare il dominio americano in questa tecnologia.
Uno dei due modelli cinesi, come ha raccontato Massimo Gaggi ieri sul Corriere, è emerso martedì dal colosso digitale Alibaba e si presenta come superiore ai concorrenti californiani.
L’altro invece viene da DeepSeek, una start-up di Hangzhou che dichiara di avere sviluppato un «assistente personale» capace di prestazioni pari a quelle dei modelli degli Stati Uniti ma a una frazione dei costi. Per addestrare il modello di DeepSeek sarebbe occorsa meno di un decimo della spesa, rispetto al leader della Silicon Valley OpenAI (partecipata da Microsoft). Per farlo funzionare basterebbe un decimo dell’energia computazionale, dunque meno microchip, meno data center, meno investimenti.
Il solo annuncio lunedì ha spazzato via mille miliardi di dollari di valore di borsa da Wall Street. Non è strano, visti gli estremi a cui sono giunte le piazze azionarie. L’economia americana vale un quarto di quella mondiale ma mai nella storia le borse americane erano arrivate, come oggi, a valere oltre tre volte più di quelle del resto del mondo insieme. E mai nella storia — se non alla vigilia del crash delle dotcom, nel 1999 — le quotazioni di Wall Street erano dipese da un’aristocrazia così ristretta di aziende dal valore colossale. In sostanza, basta sgonfiare pochi titoli a Wall Street per distruggere quantità immense di valore; basta insinuare il dubbio quanto alla narrazione sul dominio americano nell’intelligenza artificiale, per mettere in pericolo i prezzi cresciuti a dismisura.
L’annuncio su DeepSeek ha fatto questo: sulle prime ha spazzato via 600 miliardi di valore da Nvidia, perché l’azienda produce i microchip necessari a far funzionare un’intelligenza artificiale ad alto consumo.
Ma è vero che DeepSeek invece consuma poco? Forse no. DeepSeek ha dietro di sé un fondo cinese da sette miliardi di dollari, un centinaio di ingegneri di primo livello e — secondo fonti dell’industria — deve aver utilizzato molto più di diecimila processori (Gpu) di Nvidia per addestrare il proprio modello.Non sarebbe stato possibile ottenere quei risultati con meno potenza computazionale. Dunque in quest’episodio devono esserci narrazioni interessate e forse manipolazioni di mercato. Dall’altra parte, è debole anche la risposta dell’americana OpenAI, secondo la quale DeepSeek avrebbe sottratto la proprietà intellettuale dei suoi modelli: OpenAI per prima è cresciuta usando senza scrupoli la proprietà intellettuale di milioni di persone.
Dunque siamo solo alle prime schermaglie attraverso il Pacifico. Osservava a Davos Andrew Ng di Stanford, ex capo scientifico del colosso cinese Baidu: «Molti modelli open source vengono dalla Cina. Ma mi pare che il mondo occidentale non voglia che le catene di fornitura dell’intelligenza artificiale open source siano dominate solo dalla Cina». Open source (a «fonte aperta») sono modelli in teoria accessibili, modificabili e sviluppabili anche da terzi senza licenza. Ed è attorno a loro che si combatte l’altra battaglia, quella riguardo a quanto debba correre il progresso senza che i loro stessi autori ne perdano il controllo.
Dario Amodei (nome italiano, origini argentine) è uno dei grandi leader di Silicon Valley che esprimono dubbi sull’intelligenza artificiale open source per ragioni — dice — di rischio insito nella tecnologia. La sua azienda, Anthropic, ha un investimento di un miliardo di dollari da parte di Google e il suo modello è fra i più avanzati. Dice al Corriere: «Non sono contro l’open source in sé, ma voglio che i sistemi superino test prima di essere autorizzati. Come si fa per le auto o i farmaci. Ci sono pericoli reali in questa tecnologia e non possiamo negarli». Dall’altra parte Yann LeCun, ispiratore dell’intelligenza artificiale di Meta-Facebook, è a favore dell’open source e accusa Amodei di voler restringere il controllo dei modelli nelle mani di pochissimi oligarchi tecnologici. Eppure l’open source di Meta include una miriade di clausole che danno al gruppo di Marc Zuckerberg proprio il controllo totale (e arbitrario) dei dati di chi lo usa.
Così quella per l’intelligenza artificiale diventa sempre più una battaglia per il dominio. Fra Stati Uniti e Cina nel mondo, fra campioni tecnologici americani dentro la Silicon Valley. Con il resto dell’umanità, Europa inclusa, in attesa che qualcuno decida per noi.

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