La poetessa e scrittrice Daisy Lafarge racconta il suo percorso di riconciliazione con l’aspetto fisico e il sollievo di riconoscere che vestirsi vuol dire sempre travestirsi

La sera prima di San Silvestro i genitori del mio ragazzo ci accompagnano all’aeroporto di Dublino. Facciamo una sosta per lasciare suo fratello in un pub di fronte alla Martello Terrace, la dimora a­ffacciata sul mare dove James Joyce ha vissuto tra il 1887 e il 1891. Scruto dal finestrino ricoperto da gocce di pioggia. Sono le otto di sera ed è buio pesto, non vedo nulla, eccetto un imprecisato numero di cigni. Pochi secondi dopo ritorniamo sulla strada principale. Un enorme fiocco costellato di lucine cattura la mia attenzione, avvolge l’edificio di un hotel come un regalo perfetto da fotografare. È dorato e sfavillante, la decorazione più bella che abbia mai visto.
Scatto una foto che va ad aggiungersi alla mia collezione, sul telefono: fiocchi e nastri, avvistati per caso durante l’anno, che sembrano scappare dalle passerelle e dai trend su internet per riversarsi nella vita quotidiana. Avevo aggiunto una foto anche il giorno prima, quando mi hanno servito un Negroni in un bicchiere con un fiocchetto applicato; probabilmente, un tempo, ospitava una candela. Sono del tutto rapita da questo potere arcano e trasformativo dei nastri. Ripenso a quando ho letto l’Ulisse l’anno scorso e cerco di ricordarmi se il suo protagonista, Leopold Bloom, citasse esplicitamente fiocchi o nastri nei molti passaggi in cui descrive il suo feticismo per la biancheria femminile (soprattutto quella piena di ruches). Sono sicura che approverebbe. RIP, Leopold Bloom, avresti amato il trend coquette. Avresti amato l’onnipresenza dei fiocchi del 2023. Avresti amato la collezione Primavera/Estate 24 di Sandy Liang e Simone Rocha. Ci penso due volte prima di postare il fiocco gigante pieno di lucine con questa didascalia, e opto per una foto sgranata dei cigni. Mi sento esageratamente seria e mi sembra di deludere non solo me stessa, ma anche Bloom e tutti i feticisti dei nastrini, ovunque si trovino.
Non sono sempre stata così ossessionata dai fiocchi. È probabile che mi abbia contagiata la civetteria dilagante nella moda, che ha visto riemergere sulle passerelle gli stereotipi di femminilità: scarpe Mary Jane, rose, ruches, trasparenze, pizzi e, ovviamente, nastri. Sandy Liang è stata nominata la santa patrona di questa estetica iperfemminile, portata all’eccesso dalle sue proposte della collezione Primavera/Estate 24: corpetti con enormi rose di seta e fiocchi stretti intorno alla vita, bluse con maniche a sbu­ffo e colletti alla Peter Pan in percalle rosa pallido, gonne con un unico bouquet fissato con due fiocchi. Sono molto presenti anche i motivi che richiamano le ballerine, come le unghie decorate con minuscoli fiocchi in satin.
Fiori e nastrini abbondano anche nelle creazioni di Simone Rocha, dove tessuti impalpabili cosparsi di fiocchi e ruches ricordano dolcissime torte a strati. Il marchio giapponese Undercover esalta al massimo il motivo della trasparenza facendo sfilare gonne-lampadine che ospitano composizioni di rose. La scena trasmette la luminosità attenuata delle nature morte olandesi e ricorda la rosa incantata de La bella e la bestia, che si eleva sotto la sua campana di vetro. Alle ultime sfilate dell’alta moda a Parigi giocano su questo tema anche Chanel, Giambattista Valli e Jean Paul Gaultier Haute Couture by Simone Rocha.
Eppure, nonostante le trasparenze, questo trend non è sexy, o almeno non in modo diretto. È troppo eccessivo, prezioso, fanciullesco (e anche chiassoso), come Marie Antoinette, il film di Sofia Coppola del 2006 che è stato un punto di riferimento per la collezione di Liang. La sua incapacità di tracciare una linea netta tra l’estetica jeune fille e la consapevolezza di una sensualità adulta ha suscitato feroci critiche e un acceso dibattito in rete. Per alcuni questa tendenza è sintomo di una monocultura “femminile” tossica, rappresentata da pellicole come Barbie. Per dirla con le parole di Isabel Cristo, giornalista di The Atlantic: «Il fervido entusiasmo delle donne adulte nel partecipare alla venerazione della giovinezza femminile solleva una domanda leggermente destabilizzante: che cosa c’è esattamente di così poco invitante nell’essere una donna adulta?».
L’eccesso di voile e rose, però, non mi fa tornare in mente l’adolescenza – io ero un maschiaccio: a cinque anni mi strappai di dosso il tutù e scappai via dalla lezione di danza. Mi fa pensare, invece, alla poetessa canadese Lisa Robertson, la cui opera è ispirata alla filosofia e alla politica della decorazione, e alla relazione tra genere e stile. La sua prosa e la sua poesia si dilettano spesso con la capacità, comune alla letteratura e al mondo tessile, di aiutarci a farci belli, alimentando la nostra fantasia di trasformazione: «Se voglio indossare biancheria di seta vintage alle 6 di un pomeriggio d’estate e andare a letto a leggere Nietzsche, anche questo può essere un atto rivoluzionario». Nelle opere di Robertson agghindarsi non è mai un modo per esprimere onestamente se stessi, il proprio genere e l’età, ma un gesto di artificio e ribellione, piacere e finzione.
Vorrei essere una persona voluttuosa di seta e rose, una consistenza condivisa dalle frasi di Lisa Robertson e gli abbinamenti di Simone Rocha. Ma è più facile a dirsi che a farsi. C’entra solo in parte il fatto di poterselo permettere o meno (anche se molti articoli parlano della “tassa del fiocco”, per cui basta un nastrino applicato a un capo per farne lievitare il prezzo): è soprattutto una questione di coraggio.
La mia sensazione è che questa estetica – in vari modi civettuola, con note di iperfemminismo e nuovo-nuovo romanticismo – non sia tanto una regressione quanto un’esuberante reazione all’austerità culturale e letterale degli anni Dieci del Duemila – un decennio caratterizzato dallo stile definito “normcore”. Nel libro Bad Taste del 2023, Nathalie Olah scrive che si è trattata di un’epoca “definita da un carattere incredibilmente austero e ordinario, centrato su una moda mascherata da tutt’altro”. Una logica simile sembrava permeare anche il femminismo conflittuale di quel decennio. Gli anni Dieci del Duemila io li ho trascorsi all’università, dove facevo di tutto per essere presa sul serio. Anche il mio abbigliamento serviva a centrare questo obiettivo. Il messaggio che coglievo dai discorsi femministi era che vestirsi in una certa maniera – puntando ad apparire – significava vestirsi per attirare lo sguardo maschile.
Da diversi punti di vista è stato liberatorio – mi ha reso libera di dedicarmi esclusivamente alla lettura e alla scrittura. Ma trovo triste che questo mi abbia fatto pensare che ci fosse un’incompatibilità tra la vita intellettuale e la frivolezza o il piacere sartoriale. È stata una contraddizione che è passata inosservata. Non è che io non abbia partecipato alle marce di protesta SlutWalk del 2011 per respingere la logica sessista secondo cui se ti vesti in un certo modo “te la sei cercata”, e non è che non abbia trascorso un sacco di tempo a leggere Lisa Robertson e Judith Butler, o a guardare film come I misteri del giardino di Compton House di Peter Greenaway, pieno di maniche a balze e cappelli con piume di struzzo. Ero ben allineata con la teoria, ma mi vergognavo troppo per passare alla pratica.
Ogni tanto ripudiavo il mio fare da maschiaccio e ammettevo di amare questa estetica, la femminilità tendente all’eccesso – con sbuffi, pizzi e merletti – ma solo per guardarla, non per avvicinarla. Mi rendo conto che per me era difficile separare ciò che pensavo fosse femminismo da ciò che era solo un pretesto per mettere in risalto il disprezzo per me stessa. Odiavo il mio corpo e quindi cercavo di nasconderlo con tessuti pesanti e austeri, e modelli privi di forme. Come lo stile normcore, questo ra­fforzava la tensione tra visibilità e invisibilità: non mi vestivo per quel tipo di attenzione, ma con un’altra intenzione – per sottolineare che ero una persona seria, una brava femminista.
Scorgo in parte questa dinamica nell’ultimo romanzo di Rachel Cusk, La seconda casa (2021, in Italia 2023). Racconta la storia di M, una donna di mezza età, e di sua figlia Justine, poco più che ventenne, amica dell’iperfemminista Brett, che frequenta abitualmente la loro casa. All’inizio M pensa che Brett sia un poco più grande della figlia, per poi scoprire che ha superato i trent’anni. Nella prima metà del romanzo M lancia frecciatine per criticare l’aspetto trasandato di Justine e i suoi vestiti simili a sacchi. La figlia la ignora, finché un giorno Brett commenta il look dell’amica: «Perché ti vesti come Madre Hubbard (personaggio popolare delle fiabe inglesi, ndr)?».
M riflette sulla di­fferenza tra Justine, Brett e se stessa: “Ero convinta, credo, che la tendenza di Justine a nascondersi e ad abbracciare il culto della semplicità e della comodità fosse legata alla vergogna e all’avversione che provava per il suo corpo, e ne ero convita perché ero io a essermi sentita sempre così. Ero cresciuta disgustata dal mio aspetto fisico”. Molto presto Justine inizia ad ascoltare i consigli di Brett sulla moda, lo stile e la cura di sé: in una scena Brett avvolge una sciarpa sui capelli dell’amica per abbellirla (Sandy Liang sta prendendo appunti?). Rachel Cusk coglie l’ambivalenza al cuore di questa trasformazione: Justine sta imparando ad adattarsi a un oppressivo stereotipo di genere o viene incoraggiata a provare piacere nella semplice esibizione dell’aspetto esteriore?
Mi sembra che ci sia stato un cambio generazionale dagli anni Dieci agli anni Venti del Duemila. Non è difficile capire perché il periodo del lockdown possa aver indotto una generazione di Justine – incline alla praticità e alla comodità – a trasformarsi in Brett civettuole, che ora trovano un poco so­ffocanti le tute e le salopette che desideravano prima della pandemia. Interpreto anche la tendenza di Brett verso uno stile fanciullesco, non a dispetto della sua età, ma proprio a causa di questa: superata la soglia dei trent’anni è libera dalla trappola in cui si cade spesso tra i 20 e i 29 anni, e finalmente non dà più importanza ai giudizi e agli sguardi indagatori. Non c’è stata una vera e propria Brett nella mia vita, ma perdere gli ultimi anni prima dei trenta a causa del lockdown ha avuto su di me un e­ffetto simile. Ciò che è cominciato come una semplice sensazione di sollievo – sottrarsi allo sguardo degli altri – è diventato via via qualcosa di piacevole. Mi ha ricordato di quando da bambina stavo chiusa in casa a giocare con la scatola dei travestimenti. Intanto mi ero dimenticata che vestirsi vuol dire sempre travestirsi.
Sono riemersa dal lockdown più femminile, contenta di esserlo per la prima volta. Per il lancio del mio ultimo libro ho chiesto a un’amica, la stilista Sarah McCormack, di realizzare per me un vestito con la seta rossa di bambù, che le era avanzata da un altro incarico. Ci siamo messe d’accordo su una cosa del tipo: Cappuccetto Rosso sangue che corre nel bosco, il suo vestito è stato strappato da rami e spine e viene tenuto insieme appena da fili di ragnatele. È importante considerare seriamente i dettagli. E come conclude Hazel Brown, l’eroina del romanzo di Lisa Robertson, The Baudelaire Fractal: “Essere ragazza è di per sé una tradizione barocca”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *