
Un contrasto iniziato 10 anni fa. Ora c’è antipatia nei confronti di Trump. Però anche la politica e le scelte di Xi Jinping sono pericolose
La partita «America contro il resto del mondo», come viene rappresentata un po’ frettolosamente la guerra commerciale scatenata da Donald Trump, è anzitutto uno scontro fra America e Cina. Prima e seconda economia del pianeta, queste superpotenze sono impegnate in una competizione a tutto campo: per la supremazia tecnologica, per il controllo strategico dell’Indo-Pacifico, per la leadership militare. Attribuire la loro tensione alle sole scelte del 47esimo presidente degli Stati Uniti, significa dimenticare i capitoli precedenti. Molto più aggressivi dal lato cinese: dal Covid al pallone spia sui cieli d’America. E segnati da un consenso bipartisan sul fronte statunitense. Ieri Trump ha bloccato le vendite di microchip Nvidia suscettibili di servire ai supercomputer cinesi: con quella decisione ha prolungato una politica di embargo sulle tecnologie avanzate che era stata perseguita dal suo predecessore democratico Joe Biden. La questione dei macro-squilibri commerciali — la strategia mercantilista con cui la Repubblica Popolare ha accumulato avanzi sempre più colossali — è solo un pezzo del problema cinese visto da Washington.
La revisione in senso critico cominciò dieci anni fa verso la fine del secondo mandato di Barack Obama, non a caso. Fu nel 2015 che Xi Jinping svelò la sua strategia «Made in China 2025»: si proponeva di sostituire l’America nella leadership di tutte le industrie strategiche e tecnologie avanzate.
Nello stesso periodo la Confindustria tedesca aprì gli occhi: quel documento di Xi annunciava la fine di un’età aurea per il made in Germany di cui i cinesi erano stati ghiotti acquirenti.
L’America e l’intero Occidente si erano illusi di beneficiare di una nuova «divisione internazionale del lavoro» — ai cinesi i mestieri operai, le produzioni di massa a basso costo come il tessile e calzaturiero, le industrie «sporche» come miniere, acciaio, chimica, cantieristica — e a noi le attività a maggior valore aggiunto come i servizi avanzati, il software. Ma già dieci anni fa Xi ci segnalava il suo progetto: rimanere sì la fabbrica del pianeta, e al tempo stesso diventare il laboratorio del pianeta, accerchiandoci dal basso e dall’alto, surclassandoci sia nella competizione sui costi sia nella qualità. Quando da una fabbrica cinese esce un’auto elettrica che non sfigura nel confronto con la Tesla, e costa meno, il cerchio si è chiuso. I democratici Usa sotto Obama e Biden si erano convinti di dover reagire, perciò la sinistra americana pullula di «falchi» anti-cinesi quanto l’entourage di Trump. Anzi è proprio nel partito degli Obama e dei Biden che la strategia di contenimento di Pechino è stata arricchita sul versante geopolitico: con la costruzione di alleanze tra democrazie dell’Indo-Pacifico (Quad e Aukus), con i ripetuti avvisi lanciati a Xi contro l’annessione violenta di Taiwan.