La politica non può limitarsi recriminare sui tempi delle iniziative giudiziarie, ma deve agire e trovare gli anticorpi

Dopo la Puglia, il Piemonte e la Sicilia, l’ombra della corruzione elettorale si allunga sulla Liguria. Solo nell’ultimo mese — alla vigilia delle consultazioni per il Parlamento europeo e svariati enti locali — almeno sette o otto inchieste giudiziarie in corso a Bari, Torino, Palermo, Catania e ora Genova hanno provocato altrettanti scossoni politici; con conseguenze già dirompenti e dall’esito imprevedibile sulle Giunte e i personaggi coinvolti. E da qui al voto manca un altro mese. Sono storie diverse tra loro, con diversi gradi di coinvolgimento degli amministratori tirati in ballo (in carica o ex, cambia poco), appartenenti a schieramenti di ogni tendenza: sinistra, destra e centro; con una spruzzata di sospette connivenze mafiose, non più confinate al Sud. E siamo nella fase delle indagini preliminari, dunque è sacrosanto sospendere i giudizi sui singoli capi d’accusa in attesa della conclusione delle inchieste e degli eventuali processi. Ma ci vorranno anni, e nel frattempo una tale sequenza suggerisce alcune riflessioni. Tanto più alla luce del sempreverde conflitto tra politica e magistratura. Anche nell’indagine emersa ieri è tornata la polemica sulla presunta «giustizia a orologeria», in virtù della coincidenza con gli appuntamenti elettorali.
Tuttavia la Procura di Genova ha depositato la richiesta di misure cautelari il 15 dicembre 2023, relativa a fatti verificatisi a partire dal 2020 fino a tutto il 2022 e oltre; checché se ne pensi, cinque mesi per valutare un’istanza di oltre 1.500 pagine (più allegati) e partorire un’ordinanza di oltre 700 con l’illustrazione di ogni singola posizione (anche in relazione all’attualità delle esigenze cautelari) sono oggi in Italia un tempo fisiologico. Giunto a compimento un mese prima del voto per il Parlamento di Strasburgo, certo; ma a parte il fatto che non risultano candidati tra gli indagati, non sarebbe stata una giustizia altrettanto «a orologeria» se il giudice avesse atteso le elezioni per depositare il proprio provvedimento, o la Procura per eseguirlo? In altre città i tempi di attesa tra una richiesta e un’ordinanza sono molto più lunghi, e vale lo stesso ragionamento con l’aggravante di un ritardo che — superata una certa soglia — non può più dirsi fisiologico bensì patologico.
Al di là di ciò che verrà accertato in seguito, anziché recriminare sui tempi delle iniziative giudiziarie, la politica farebbe forse bene a trovare gli anticorpi giusti per evitare che ci si arrivi. A partire da Mani Pulite (ma la corruzione c’era anche prima), sono più di trent’anni che le indagini svelano sempre nuovi sistemi di malaffare e di ricompense per lo scambio tra favori e compensi illeciti. Dai soldi, destinati alle persone o ai partiti, si è passati alle «altre utilità» che assumono forme sempre diverse: assunzioni, vacanze pagate, fino alle regalie più costose e disparate. Eppure — soprattutto a livello locale — gli amministratori non sembrano capaci di capire e imparare che certe cose non si possono fare o è meglio non farle, anche quando non sembrano reati e magari alla fine non vengono provati, o non lo sono affatto. La prevenzione della corruzione non può non cominciare in casa propria e dai comportamenti dei singoli; continuare ad affidarla esclusivamente a chi è chiamato a reprimere non solo non basta, ma non serve a costruire una politica credibile.
Così come non serve la strumentalizzazione politica delle iniziative giudiziarie. Intanto perché prima o poi si rischia di ritrovarsi in imbarazzo quando ad essere colpiti non sono più gli avversari bensì gli alleati, o addirittura gli esponenti del proprio stesso partito. E poi perché bisognerebbe sempre ricordare che la giustizia penale ha le sue regole, oltre che i suoi tempi, e non è detto che coincidano con quelle della buona amministrazione. Farne uno strumento della contesa politica è sempre un errore, il che non significa non tenerne conto. La valutazione razionale, e per quanto si può «distaccata», dei provvedimenti di un giudice dovrebbe essere l’altra faccia della prevenzione applicata in autonomia da partiti e governi, a qualunque livello. Anche sulla base dei risultati di un’indagine o di un processo, ma sempre in autonomia.
Infine, quest’ultimo scossone arriva nel momento di massima tensione tra magistratura e politica dopo l’annuncio del governo di voler procedere alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. La «madre di tutte le riforme» in tema di giustizia, che però ha poco o nulla a che vedere con il funzionamento della giustizia; a cominciare dai tempi troppo lunghi, prima causa delle lamentele dai cittadini (e dei politici, quando li riguardano). L’unico effetto dell’ultimo proclama, per ora, è aver compattato tutte le correnti delle toghe (destra, sinistra e centro) contro la modifica costituzionale che si vuole introdurre, e quindi contro l’esecutivo. Determinando una contrapposizione frontale che non è un buon viatico per il proseguimento del dibattito; sulle riforme, ma anche sulle inchieste giudiziarie che investono la politica. Di ieri di oggi e di domani.

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