Il presidente americano e la decisione sull’entrare direttamente nella guerra tra Israele e Teheran

Nel suo secondo mandato un Donald Trump molto più interventista, autoritario, imperiale, ha incassato in varie parti del mondo delusioni e sconfitte impreviste che gli hanno reso sempre più difficile applicare le tre regole attorno alle quali, in gioventù, il suo temperamento è stato plasmato dal suo mentore, Roy Cohn: attacca sempre, non fare mai ammissioni, dichiarati ogni volta vincitore.
Dai dazi (imposti, sospesi, rilanciati, rinviati e uno scontro con la Cina concluso con un accordo vantaggioso per Pechino) all’Ucraina (col presidente costretto a dire che quando prometteva la pace in 24 ore, scherzava), passando per i tentativi falliti di ottenere un cessate il fuoco a Gaza, Trump ha dovuto ricorrere ad acrobazie dialettiche per nascondere l’inefficacia delle sue mosse: riflesso anche del ridimensionamento del potere degli Stati Uniti accentuato da una logica America First che inevitabilmente cambia il ruolo della superpotenza.
Sulla guerra tra Israele e Iran, però, il presidente è oramai al momento della verità, non può più sostenere tutto e il contrario di tutto come ha fatto fin qui. Ora è agli ultimatum che preludono all’intervento militare Usa che pure lui aveva giurato di voler evitare.
In rapida sequenza, mentre stava per lasciare in anticipo il G7 canadese, prima ha sostenuto che gli iraniani «sono ormai seduti, di fatto, al tavolo negoziale, vogliono un accordo», poi ha lanciato un agghiacciante monito ai 10 milioni di abitanti di Teheran: «La città va evacuata immediatamente». Messaggio difficile da inquadrare in una logica negoziale.
Un Trump sempre più nervoso ha giocato la carta della diplomazia coercitiva. La spinta alla Guida Suprema Ali Khamenei, e ciò che resta del vertice politico-militare del regime degli ayatollah dopo cinque giorni di distruzioni e assassinii mirati di Israele, è diventata ben presto ultimatum: richiesta di una resa totale e non solo la rinuncia ad arricchire l’uranio necessario per la bomba atomica. Secondo alcuni analisti, Trump e il premier israeliano Netanyahu, deciso a tirare gli Usa dentro il conflitto sostenendo che solo loro possono distruggere impianti nucleari sotterranei di Fordow con la mega bomba Gbu ad alto grado di penetrazione da quasi 15 tonnellate, sganciata dai bombardieri B-2, starebbero giocando al poliziotto buono e quello cattivo: Donald che parla di negoziati e di pace mentre Benjamin picchia duro.
Non è così: i rapporti tra i due non sono più caldi come nel primo mandato, Israele non ha ascoltato la Casa Bianca su Gaza e anche in Iran Trump è riuscito solo ad ottenere da Netanyahu il rinvio dell’offensiva. E domenica si è opposto, per ora con successo, all’uccisione della Guida Suprema, Ali Khamenei: lezioni come quelle dell’Iraq e della Libia hanno insegnato, al Dipartimento di Stato, al Pentagono, ma anche allo stesso Trump, che, eliminato un dittatore, il potere può passare in mani ancora peggiori o sbriciolarsi in schegge incontrollabili, perfino più pericolose.
Ma Trump è arrivato proprio a questo punto col suo «sappiamo dove ti nascondi» che unisce la minaccia all’ammissione di essere ormai allineato a Israele. Non d’accordo con Netanyahu, ma spinto da lui sul piano inclinato di un’offensiva militare israeliana di efficacia devastante che può ridisegnare la mappa del Medio Oriente, ora gli si impone una scelta drammatica: se la sua combinazione di persuasione e coercizione non avrà successo, dovrà decidere se trasformare la guerra di Israele in una guerra degli Stati Uniti con l’intervento diretto dei suoi bombardieri e dei suoi piloti.
Una scelta drammatica per le enormi conseguenze internazionali che potrà avere, ma anche per i problemi interni che Trump deve fronteggiare: aveva promesso di essere un presidente di pace, avverso a ogni nuovo conflitto e ora la prospettiva di un intervento in Iran spacca il partito repubblicano, ma soprattutto il fronte dei Maga, coi suoi sostenitori più accesi, come la star televisiva Tucker Carlson, che avevano creduto in un Trump sostanzialmente isolazionista.
Il nervosismo di Trump trapela anche dall’ennesimo episodio del suo tormentato rapporto col presidente francese Emmanuel Macron. Un rapporto iniziato durante il suo primo mandato presidenziale: in una prima fase trionfale, col leader francese, più portato dei suoi colleghi europei alla diplomazia personale, che aveva costruito con The Donald un rapporto quasi cameratesco, farcito di elogi. Ma poi i contrasti sui nodi concreti — i dazi, la Nato, Gerusalemme capitale — avevano raffreddato il clima.
Stavolta trattare col Trump è stato più complicato tra contrasti sull’Ucraina, dazi e altro. A febbraio la visita di Macron alla Casa Bianca, primo europeo ricevuto dal nuovo presidente, sembrò un segnale di ricucitura, anche se il presidente francese corresse in conferenza stampa un Trump secondo il quale l’Europa spendeva poco per Kiev, e solo con prestiti da rimborsare: «Non è così, la Ue copre i 60% delle spese». Trump non reagì, solo una battuta scherzosa. Ma ora, davanti a Macron che giustificava il suo abbandono anticipato del G 7, con un suo tentativo di arrivare a una tregua, Trump è stato durissimo: «Cerca solo pubblicità e non sa nulla. Sono andato via per motivi importanti, non certo per cercare un cessate il fuoco».
Fino a ieri Trump ha giocato a mascherare con la sua retorica brusca il fatto di aver tenuto, sull’Iran, il piede in due scarpe. Ma se si spezzerà l’ultimo filo di dialogo col ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi, uno dei protagonisti dell’accordo sul nucleare con Teheran siglato nel 2015 da Barack Obama e poi sciaguratamente denunciato da Trump nel suo primo mandato, il presidente dovrà prendere decisioni che segneranno la storia dell’America.Gli indizi — portaerei dirette verso il Golfo, flotte di aerei cisterna per il rifornimento in volo trasferite dagli Stati Uniti in Europa e Asia e la sottolineatura, da parte della Casa Bianca, della volontà di evitare a tutti i costi che gli ayatollah si procurino l’arma nucleare — fanno pensare che Trump si prepari ad autorizzare un qualche tipo di sostegno militare a Israele.
Chi vede nel presidente solo un grande Narciso, ironizza su un Donald angosciato perché svanisce il suo sogno di essere premiato col Nobel per la Pace. Ma Trump è anche un pragmatico che percepisce gli umori e ha buoni istinti politici. Nell’ora più grave non potrà non ricordare quelle che hanno segnato l’eredità dei suoi predecessori: dal Vietnam di Lyndon Johnson all’Iraq di George Bush.

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A.N.D.E.
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