Ilaria Salis, insegnante 39enne detenuta a Budapest da quasi un anno, è comparsa davanti ai giudici in catene, con le manette ai polsi e alle caviglie. È accusata di aver aggredito due estremisti di destra
Entra in aula sorridendo. Jeans, maglione a righe e capelli lunghi. A vederle solo il volto, ispira quasi serenità. È quando lo sguardo si allarga su tutta la sua figura, il corpo minuto ma atletico di una donna che ha sempre fatto sport, che l’immagine si fa molto più dura. Ilaria Salis, imputata davanti all’autorità giudiziaria ungherese, detenuta a Budapest da quasi un anno, compare infatti davanti ai giudici in catene. Ha le manette ai polsi e alle caviglie. I ceppi, a loro volta, sono legati fra loro a un cinturone, attaccato ulteriormente a una sorta di guinzaglio, tenuto dalle guardie penitenziarie.
Dietro di lei e i due coimputati tedeschi, ci sono gli uomini di un corpo speciale degli agenti di custodia. Energumeni in tenuta mimetica antisommossa, con il giubbotto antiproiettile e il «mephisto» nero calato sul volto. Come se stessero scortando un pericoloso criminale, un boss mafioso.
È in queste condizioni che si è aperto il processo alla 39enne maestra elementare milanese Ilaria Salis, militante antifascista, arrestata nella capitale magiara a febbraio dello scorso anno, a seguito di una contromanifestazione tenutasi nei giorni in cui la città era diventata sede di un raduno di neonazisti provenienti da tutta Europa. È accusata di aggressione ai danni di due estremisti (guariti in pochi giorni) e, per un sistema di calcolo delle aggravanti, in base alla legge ungherese, partendo dal presunto reato di lesioni in concorso e di far parte di una «associazione estremista», rischia fino a 24 anni.
Se il padre, gli avvocati e altri attivisti hanno sempre denunciato le condizioni «degradanti» della sua detenzione, in certi periodi «assimilabili alla tortura», il modo con cui la ragazza è stata accompagnata in aula per la prima udienza è la fotografia plateale di ciò che Salis e la sua famiglia stanno vivendo in questi mesi.
Prima del processo, nelle scorse settimane, la pubblica accusa aveva offerto all’imputata di riconoscere il fatto ed evitare di conseguenza il processo con una condanna a 11 anni. Una sorta di equivalente del «patteggiamento», a voler cercare un’analogia con l’ordinamento italiano, che è stato però respinto dai legali della cittadina italiana.
Dal punto di vista processuale, lunedì, non è successo granché: esposizione del capo di imputazione, apertura dell’istruttoria, richieste probatorie e rinvio dell’udienza al mese di maggio. Con l’imputata c’erano gli avvocati Eugenio Losco e Mauro Straini, oltre al padre Roberto Salis, artefice della mobilitazione per riportarla in Italia. La donna si è dichiarata innocente: «llaria ha contestato la mancata traduzione degli atti di indagine, e di non avere ancora potuto visionare le immagini della videosorveglianza usate come prova contro di lei», hanno fatto sapere i legali. Resta comunque l’indignazione per l’immagine della donna in catene, per quanto la stessa fosse stata anticipata già da tempo dagli stessi legali.
«È stato uno choc. Ci aveva detto che veniva sempre trasferita in queste condizioni ma vederla ci ha fatto impressione. Era tirata come un cane, con questa guardia che la tirava con una catena di ferro. Ed è rimasta così per tre ore e mezza», ha dichiarato l’avvocato Losco. «È una grave violazione della normativa europea — ha aggiunto — l’Italia deve far finire questa situazione ora». Uno dei due coimputati, tedeschi, che a differenza dell’insegnante milanese si è dichiarato colpevole, è stato condannato a tre anni. Il giudizio immediato è stato possibile poiché l’uomo ha ammesso le accuse contestate dalla procura ungherese. La sua difesa ha annunciato ricorsopuntando a una riduzione della pena, e ad un riconoscimento della detenzione cautelare già scontata. Ilaria Salis, invece, è considerata «l’imputata centrale» del processo, e per lei la battaglia, dentro e fuori il palazzo di giustizia, è appena iniziata.