Da Parigi a Berlino, da Roma a Londra, prende sempre più quota la convinzione che la deriva dei continenti, la distanza politica tra America ed Europa, stia per diventare un dato di fatto
Nel confronto a porte chiuse con gli alleati, i governanti trumpiani sono ancora più brutali rispetto a ciò che vediamo in pubblico. Venerdì 6 giugno: vertice della Nato a Bruxelles. A un certo punto il capo del Pentagono Pete Hegseth si rivolge così ai colleghi europei: ma perché continuate a insistere con l’Ucraina, quando c’è così tanto da fare con la Nato? Subito dopo l’Ambasciatore Usa, Matthew Whitaker, va giù piatto: guardate che ora tocca a voi sostenere il peso dell’aiuto militare a Kiev; noi abbiamo già fatto troppo.
Da Parigi a Berlino, da Roma a Londra, prende sempre più quota la convinzione che la deriva dei continenti, la distanza politica tra America ed Europa, stia per diventare un dato di fatto. La prova deriva da tre indizi, tre dossier di importanza capitale: Ucraina, appunto. Poi Gaza e Iran. Fino a poche settimane fa, Donald Trump pareva ancora oscillare tra le ragioni di Kiev e gli interessi predatori di Mosca. Ma a partire dalla telefonata con Vladimir Putin, il 4 giugno scorso, si sono moltiplicati i segnali di disimpegno nei confronti dell’Ucraina.
Il più importante: il presidente americano ha praticamente annunciato al mondo, come fosse il portavoce del Cremlino, la rappresaglia di Putin in risposta ai raid contro le basi aeree in territorio russo. Il 5 giugno Hegseth ha disertato la riunione del «gruppo di contatto», cioè i fornitori di armi all’Ucraina. E il giorno dopo ha preso le distanze da Kiev nel summit di Bruxelles. Infine ieri, l’ultima protesta di Volodymyr Zelensky: gli americani avevano promesso di consegnarci subito 20 mila droni, ma li hanno invece inviati nel Medio Oriente. A quanto pare a protezione dei presidi militari Usa nella regione.
Gli europei stanno provando a restare agganciati all’America. Il tentativo più concreto si consumerà tra due settimane, nel summit dei Capi di stato e di governo della Nato, all’Aja, in Olanda. Com’è noto quasi tutti i 32 partner dell’Alleanza si sono impegnati ad approvare l’aumento delle spese militari nazionali, come richiesto dagli Usa, portandole al 5% del prodotto interno lordo: 3,5% per le forze armate; l’1,5% per infrastrutture e cyber sicurezza.
Il Segretario dell’Alleanza Atlantica, Mark Rutte, in questi giorni sta facendo il giro delle capitali. Il 12 giugno sarà a Roma e ripeterà alla premier Giorgia Meloni quello che ha già detto agli altri leader: se vogliamo evitare «sorprese» all’Aja, dovete tutti approvare il nuovo target di spesa. Quali «sorprese»? Sempre Rutte ha spiegato: gli americani potrebbero far fallire il vertice e spostare altrove, nell’Indo-Pacifico, le risorse finanziarie.
Gli Stati Uniti e la maggioranza dei Paesi europei stanno prendendo direzioni opposte anche su Gaza. Come si è visto mercoledì 4 giugno, in una drammatica riunione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. I dieci rappresentanti a rotazione hanno presentato una mozione per chiedere il cessate il fuoco nella Striscia e l’apertura totale al flusso degli aiuti umanitari. L’iniziativa è partita dall’Algeria. Slovenia, Grecia e Danimarca si sono associate per mitigare il testo, con l’impegno di Francia e Regno Unito, due dei cinque membri permanenti del Consiglio. Ne è venuto fuori un documento equilibrato, dove si chiedeva anche il rilascio immediato degli ostaggi ad Hamas. Per ore i diplomatici francesi, britannici e sloveni hanno provato a smuovere gli americani. Niente da fare. Dorothy Shea, ambasciatrice ad interim, ha messo il veto e la risoluzione, appoggiata da 14 Paesi su 15 (cinque europei), non è passata. Era già successo sette mesi fa. Allora il massacro della popolazione civile era già evidente. Oggi è semplicemente inaccettabile. E’ un’opinione largamente condivisa nel mondo, come si vedrà nell’Assemblea generale straordinaria dell’Onu, convocata per il 12 giugno.
Vero, l’Unione europea non è ancora compatta su possibili misure, non diciamo sanzioni, da adottare contro Israele. Diciassette Paesi hanno chiesto di «rivedere» l’accordo di associazione commerciale con Tel Aviv. Se ne dovrebbe discutere nel Consiglio dei ministri degli esteri, in calendario il 23 giugno. Difficile si possa arrivare all’unanimità necessaria per la sospensione totale, ma è possibile cancellare la clausola commerciale preferenziale: in questo caso basterebbe la maggioranza qualificata, formata da 15 Paesi che rappresentino almeno il 65% della popolazione totale. Sul piano politico vanno registrate le pesanti critiche del cancelliere tedesco Friedrich Merz al governo guidato da Benjamin Netanyahu e, quindi, sia pure indirettamente, all’atteggiamento della Casa Bianca.
Giorgia Meloni non ha ancora dato indicazioni. Il governo italiano ha avuto la possibilità di inviare un segnale a Netanyahu bloccando il rinnovo automatico del memorandum di cooperazione militare con Israele che scadeva l’8 giugno. Non lo ha fatto. La premier italiana è convinta che ci sia ancora spazio politico per trovare un compromesso politico con Trump su tutti i dossier. I margini, però, sono sempre più stretti.
Anche sull’Iran. Qui Trump ha iniziato una trattativa senza consultarsi non solo con gli europei, ma neanche con Israele. In realtà a sorpresa, e tra lo sconcerto dei partner occidentali, il presidente americano ha chiesto aiuto a qualcuno. Chi? Non è difficile: Putin. Sempre nel colloquio telefonico del 4 giugno, Trump ha sollecitato il leader russo a favorire il negoziato sul nucleare con Teheran. In cambio gli americani continueranno a mediare tra India e Pakistan, in un’area di comune interesse per Mosca e per Washington.