Non si può essere ottimisti, in un momento così complesso, ma Stati Uniti e Iran si sono parlati, sia pure attraverso la mediazione del ministro degli Esteri dell’Oman, Badr bin Hamad Al Busaid

Nell’«epoca del caos», raccontata dall’Economist con un montaggio di espressioni rabbiose di Donald Trump, c’è spazio per la diplomazia nonostante le promesse irrealizzate di risolvere tutto in poco tempo arrivate dal picconatore della Casa Bianca? Non si può essere ottimisti, in un momento così complesso, ma Stati Uniti e Iran si sono parlati, sia pure attraverso la mediazione del ministro degli Esteri dell’Oman, Badr bin Hamad Al Busaid, che sembra aver lasciato a casa per l’occasione il khanjar, pugnale ricurvo simbolo del suo sultanato.
È quasi scontato sottolineare che questo dialogo, appena iniziato, può essere un elemento determinante di un futuro diverso, almeno (ma non solo) nella polveriera medio-orientale. Condizione essenziale, convincere l’ayatollah Khamenei a compiere alcuni importanti passi indietro, ammettendo anche la debolezza oggettiva di un regime pericoloso che ha subito recentemente molte sconfitte. I negoziati indiretti, già visti in tante occasioni pubbliche o segrete, sono un classico della diplomazia. L’immagine del messaggero che fa la spola tra una stanza e l’altra (anche se poi, alla fine, l’immobiliarista Steve Witkoff, inviato di Trump, e il ministro degli Esteri iraniano Seyed Abbas Araghchi hanno avuto «una comunicazione diretta») indica in questo caso un movimento cauto in uno scenario denso di incognite.
Le due parti non sono andate finora molto oltre le posizioni di principio. Dalle stanze dei palazzi di Mascate è filtrato intanto che il punto di partenza in questa fase iniziale ha riguardato in generale l’attenuazione delle tensioni regionali, lo scambio di prigionieri, l’alleggerimento delle sanzioni in cambio di un controllo sulla minaccia rappresentata dal programma nucleare di Teheran. E proprio su questo ultimo terreno che le difficoltà sono enormi, come sanno i protagonisti (tra cui l’Unione europea, ricordiamolo) di quell’accordo del 2015 che fu «The Donald» a gettare poi nel cestino riducendone l’efficacia.
Meglio non pensare a cosa potrebbe accadere se Trump dovesse tirare le conseguenze di un categorico no dei nuovi interlocutori alle aspettative americane in un’area dove la pressione militare è già significativamente salita di grado, come dimostra l’invio dei bombardieri B-2 nella base militare dell’isola di Diego Garcia. «Se i colloqui non avranno successo, l’Iran sarà in grave pericolo, e odio dirlo, perché non può avere un’arma nucleare», sono state le parole testuali del presidente americano.
Con una certa dose di cinismo, che non manca mai nelle relazioni internazionali, è però forse possibile oggi pensare di approfittare, in un certo senso, del fatto che le mosse di Trump hanno sempre l’obiettivo di forzare lo status quo esistente. L’immobilismo calcolato, d’altra parte, è invece il maggior nemico di qualsiasi progresso. Gli stessi colloqui di Mascate si stanno tenendo dopo un’esternazione dell’inquilino della Casa Bianca davanti ad un imbarazzato primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu nello stesso luogo dove venne maltrattato il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. «Voglio parlare con l’Iran» ha detto Trump. Il sasso viene lanciato nell’acqua, ma contrariamente a quanto avviene nella realtà è destinato a lasciare una traccia. L’auspicio è che prevalgano invece le ragioni del dialogo e che la linea negoziale si adegui alla possibilità di raggiungere un effettivo risultato.
Paradossalmente, anche l’assurda scommessa sulla trasformazione di Gaza in una riviera per milionari, deportandone la popolazione, ha scosso la situazione senza apparenti vie d’uscita che si è prodotta dopo il terribile attacco anti-ebraico di Hamas del 7 ottobre (che sono in troppi a dimenticare in qualsiasi analisi degli avvenimenti successivi) e la sistematica distruzione del territorio e dei suoi abitanti compiuta dalle forze di Netanyahu in un contesto complessivo che il filosofo israeliano Omri Boehm ha definito di «disumanizzazione totale».
Tutto è legato da un unico filo. Non è un caso che in questi giorni si torni a parlare di un riconoscimento dello Stato palestinese, chiamando in causa anche tutti quelli che, come l’Iran, negano il diritto di Israele ad esistere, prefigurando un impegno generale per la sicurezza collettiva della regione. Uno scenario di questo tipo rende indispensabile – anche se si tratterà di un processo non semplice – riformare e rinnovare l’Autorità Nazionale dell’inamovibile Abu Mazen innestando una dinamica in grado di portare tutti coloro che sostengono la Palestina a riconoscere a loro volta Israele. A Gerusalemme si ritiene, come ha detto il ministro degli Esteri Gideon Saar, che dare via libera diplomatico ad uno Stato palestinese significherebbe «ricompensare il terrore» e «incoraggiare Hamas». Sarebbero preferibili valutazioni più meditate. La guerra delle parole fa il gioco degli avversari di ogni soluzione. Anche a Teheran, naturalmente, dove i nemici della pace e della stabilità in Medio Oriente non mancano e non sono mai mancati.

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