Un 14 luglio amaro. Mai la festa nazionale è scivolata via mentre il Paese è dilaniato politicamente e la società è slabbrata
Mai 14 luglio fu più amaro per la nostra nazione sorella, la Francia. Mai festa nazionale, anziché essere celebrata nel consueto clima di fierezza se non di grandezza, è scivolata via mentre il Paese è dilaniato da una contesa e insidiato da un vuoto senza precedenti, nell’estate del grande malessere.
Un anno fa, Emmanuel Macron pareva aver salvato la ghirba. Al secondo turno delle elezioni legislative si era di fatto creata nell’urna un’alleanza di centrosinistra, che aveva sbarrato la strada al Rassemblement National di Marine Le Pen e Jordan Bardella.
Un’ottima notizia per l’Europa: la vittoria dei lepenisti, infatti, sancirebbe la fine dell’Unione, in cui la Francia è l’unica potenza nucleare e l’unica ad avere un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Dato in testa nei sondaggi, lo schieramento della Le Pen è arrivato terzo, dietro la sinistra e dietro i centristi più o meno fedeli a Macron. Il presidente però non è riuscito a formare un governo che rispecchiasse la maggioranza uscita dalle urne. E siccome gli altri schieramenti si sono rapidamente sfaldati, il partito di Marine è oggi il primo nell’Assemblea nazionale. Non può formare un governo, ma può sfiduciare quello in carica.L’ha già fatto con un premier di grande esperienza come Michel Barnier. Ha annunciato che lo rifarà in autunno, affossando il nuovo primo ministro François Bayrou, se non cambierà il piano di tagli alla spesa pubblica da 48 miliardi di euro.
I tagli, ovviamente, sono necessari.In un quadro di instabilità generale, la Francia è oggi il malato d’Europa. Più grave della Spagna il cui governo si regge su un solo voto di maggioranza, della Germania che ha creato una coalizione per arginare la crescita dell’estrema destra, del Regno Unito dove Nigel Farage è oggi il primo partito. Il debito pubblico francese in valore assoluto ha superato quello italiano. Il deficit è più del doppio della soglia massima del 3% prevista da Maastricht. La Francia è entrata nella trappola che conosciamo benissimo: il debito aumenta, lo sviluppo frena, crescono i rendimenti dei titoli di Stato, e di conseguenza finanziare il debito costa sempre di più.
Inevitabilmente, i tagli si concentrano sul settore pubblico. Violando un tabù: la sacra figura del funzionario, ormai vista come un costo anziché come un’eccellenza.
Macron è stato l’ennesimo presidente eletto in nome di un cambiamento che i francesi in realtà non vogliono.
Il tempo in cui la figura del capo dello Stato era avvolta da un’aura di grandezza e rispettabilità è finito da tempo. Charles De Gaulle aveva costruito attorno alla sua persona un meccanismo che pareva stabilissimo: un capo dello Stato eletto dal popolo, in carica per sette anni. François Mitterrand ne passò all’Eliseo quattordici, e lo chiamavano Dieu, Dio. L’ultima figura a godere di un largo consenso e di un vero prestigio è stato Jacques Chirac, che dopo una giovinezza comunista era stato ministro di De Gaulle nel fatidico 1968, e sapeva tenere insieme le componenti della società, gli industriali e i sindacalisti, la provincia profonda e la capitale, di cui era stato sindaco per diciotto anni.
Dopo di lui, il diluvio. Nicolas Sarkozy fu eletto all’insegna di una «rupture» cui in realtà quasi nessuno era pronto. Tagliare il welfare e le tasse, tolleranza zero con delinquenti e clandestini, liberalizzazione dell’economia, affinché «chi lavora di più guadagni di più». La destra italiana se ne infatuò con una certa leggerezza, salvo poi ricredersi quando rise con la Merkel di Berlusconi. In realtà, l’uomo non era all’altezza delle sue idee, non aveva la statura né politica né morale per realizzarle. La crisi importata dall’America fece il resto. Ma se non altro Sarkozy si ricandidò e al ballottaggio prese il 48,4%: quasi 17 milioni di voti. Il suo successore, François Hollande, cinque anni dopo non ci riprovò neppure: non avrebbe superato il primo turno.
Macron appena entrato all’Eliseo per prima cosa abolì la patrimoniale (ma non la tassa di successione, che può arrivare al 45%). Dopo la seconda vittoria fece la contestatissima riforma delle pensioni. È considerato dalla sinistra un presidente di destra, e dalla destra un presidente di sinistra, o comunque globalista. Ora sta cercando nella politica estera un ubi consistam, o anche solo una forma di sopravvivenza.
Alle prossime presidenziali mancano poco meno di due anni. Qualcuno sostiene che sarebbe meglio far governare i lepenisti, per immunizzare la nazione, nella stessa logica con cui Mitterrand nominò primo ministro il suo avversario interno, Michel Rocard: «I francesi lo vogliono, e lo avranno. Così capiranno chi è davvero». Il governo Rocard durò due anni, poi lui sparì dalla scena.
Al secondo turno nel 2027 (a meno che Macron non si dimetta prima, cosa che finora ha sempre escluso) ci sarà sicuramente un candidato del Rassemblement National. Al momento, Marine Le Pen non è candidabile, per una sentenza della magistratura. Al suo posto dovrebbe esserci Jordan Bardella, sedicente uomo forte, in realtà del tutto impreparato. Ma se dovesse andare al ballottaggio contro Jean-Luc Mélenchon, vincerebbe. Resta da capire se in mezzo può emergere un riformista, come Gabriel Attal, o un moderato, come Eduard Philippe, che possa presentarsi al secondo turno come il meno peggio.
Ma non è dalla politica che verrà la svolta.La società francese appare slabbrata come non mai. Due segnali su tutti. La Francia non è più l’eccezione europea: la curva demografica è crollata anche oltralpe; pure i francesi, come gli altri europei, fanno sempre meno figli, hanno sempre meno fiducia nel futuro, meno entusiasmo per la vita. E financo le occasioni di gioia, come la prima vittoria in Champions League del Paris Saint-Germain, diventano momenti di sfogo e di violenza. Il successo dei Giochi olimpici di un anno fa sembra molto lontano.
In quei giorni, i parigini fuggirono in campagna, e la Francia di provincia si prese la capitale, accendendola con un tifo nazionalista mai visto, neanche a Pechino. Ma poi è ritornata la realtà. E le statistiche parlano di oltre dieci milioni di francesi sotto la soglia della povertà. Nel villaggio dal campanile a punta chiude il bistrot e apre il «compro oro». La ricchezza è sempre più estratta anziché prodotta. Se i gruppi del lusso fanno shopping di marchi gloriosi, in primo luogo italiani, i migliori giovani francesi emigrano dove gli stipendi sono più alti e le tasse più basse. Un Paese meraviglioso, dall’inestimabile patrimonio storico e culturale, rischia non soltanto di non trovare un leader in grado di incarnarlo, ma anche di non riconoscere se stesso, di non sapere più chi è.