Ogni persona preferisce la pace alla guerra. Ma il ruolo della politica è un altro, soprattutto sui conflitti

Nel 1938 un giovane sociologo che aveva appena fondato quello che ancora oggi è il maggiore istituto francese di sondaggi, l’Ifop, esordì chiedendo ai suoi concittadini se approvassero l’accordo di Monaco appena firmato, il quale, come si sa, dava in pratica il via libera alle mire di Hitler sulla Cecoslovacchia. Risultato: ben il 57 per cento rispose sì, che approvavano l’accordo, il 37 per cento rispose di essere contrario, mentre il 6 per cento non rispose. È abbastanza noto come andò a finire.
Si tratta all’incirca dello stesso risultato che dà il sondaggio, divulgato nei giorni scorsi, che qui in Italia, oggi, ha chiesto agli italiani se approvano il disimpegno del nostro Paese dalla guerra in Ucraina sia sotto forma d’invio di armi che in qualsiasi altro modo. Risulta che la grande maggioranza è per il disimpegno.
Ma che cosa indica in realtà un tale sondaggio? Semplicemente che in generale alla gente comune la prospettiva della guerra non piace, che essa preferisce tenersene lontana. Si tratta di un modo di sentire elementare, naturale, probabilmente diffuso sempre e dappertutto. La domanda però è fino a che punto una qualunque decisione importante, ad esempio sul destino di un Paese, possa fondarsi esclusivamente su un tale modo di sentire. In altre parole se esso renda di fatto inutile la politica.
Io penso proprio di no. La politica — quella vera, quella rappresentata da una vera classe dirigente non da una congrega di dilettanti allo sbaraglio — la politica, dicevo, serve innanzi tutto a spiegare come stanno realmente le cose, quali sono i veri termini di un problema, perché le cose stanno così e chi ne ha la responsabilità. E infine serve a interrogarsi sui possibili rimedi: a farsi le domande giuste. Far credere, viceversa — come cercano di fare credere coloro i quali si fanno forti dei sondaggi — che la politica debba principalmente consistere nel fare «quello che pensa la gente», è solo una pericolosa menzogna, anche se travestita da perfetta ortodossia democratica.
Ciò vale specie quando è questione di politica estera; e ancora di più quando è questione della pace e della guerra. Ogni persona normale preferisce ovviamente la pace alla guerra. Ma ogni persona normale sa che da sempre esistono capi di governo che mirano a espandere il proprio potere a danno di Paesi vicini, capi di governo che ricorrono all’intimidazione e alle minacce verso coloro che li contrastano, e che alla fine non esitano a far seguire alle minacce atti concreti anche i più brutali: come per l’appunto da tre anni sta facendo in Ucraina Vladimir Putin con il suo esercito.
Come ho detto, la politica serve, dovrebbe servire, a informarci per decidere che cosa conviene fare. Ad esempio a informarci chi sia Putin, a informarci circa la continua manipolazione della Costituzione russa che egli ha operato per conservare il potere; ovvero circa le idee reazionarie, imperialiste, revansciste, illiberali, e clericali che ama professare facendone la piattaforma ideologica del suo potere. Ancora: a informarci circa la cerchia di grandi ladri di Stato di cui si circonda e che da lui dipendono; a darci notizia della menzogna continua a cui ricorre; dell’arma della corruzione di cui si serva per comprare politici e media stranieri; dell’assassinio a ripetizione di chiunque si opponga al suo potere; della catena di continue di feroci aggressioni sterminatrici che egli conduce da anni contro quei Paesi stranieri che considera far parte della sfera d’influenza russa.
Il principale dovere dei politici non è quello di spingerci alla pace o alla guerra: è quello di informarci circa che cosa essi per primi pensano circa le questioni ora dette che costituiscono i veri aspetti decisivi a proposito della guerra o la pace. Solo così, infatti, possiamo decidere con cognizione di causa sulla questione cruciale la quale, così come nel ’38 a proposito della Cecoslovacchia era «possiamo fidarci di Adolf Hitler?», oggi a proposito dell’Ucraina è: «possiamo fidarci di Vladimir Putin?». Il che non vuol dire che se le risposta è no, allora dobbiamo unirci agli ucraini nel fare la guerra. Vuol dire che se la risposta è no allora non possiamo decentemente dissociarci dagli ucraini nel caso in cui anch’essi non si fidino di Putin; non possiamo dissociarci dagli ucraini quando essi, come accade oggi, prima di accettare qualsiasi proposta di pace vogliono vederci chiaro, prendere tutte le misure precauzionali del caso, ottenere tutte le garanzie possibili.
Perché tali garanzie sono necessarie anche a noi. Infatti, se domani Putin come ha già fatto tante altre volte decidesse, dopo un eventuale successo in Ucraina, di mettere in moto un nuovo meccanismo di destabilizzazione-sovversione interna-invasione ad esempio nei confronti della Moldavia o dell’Estonia o di qualche altro piccolo Paese baltico, che cosa faremmo noi allora? Di nuovo il «vorrei ma non posso», il «qui lo dico e qui lo nego», il «sì, ma, vedremo» di questi mesi? I dittatori guerrafondai e omicidi vanno fermati il prima possibile: e chi cerca di farlo, immerso da tre anni nel fango e nel sangue, ha diritto almeno a tutto l’aiuto possibile da chi come noi, invece, sta in poltrona a godersi lo spettacolo in tv.

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