Il tempo sembra essersi fermato agli anni ‘60 e ‘70. Paga ancora il prezzo di non essere stata capace di rinnovarsi

Pietrificata in pensieri e parole da sempre eguali, sempre gli stessi, la sinistra italiana della seconda Repubblica paga ancora il prezzo per non aver colto le due grandi occasioni che in passato essa ha avuto di rinnovarsi nell’unico modo possibile e necessario. Cioè rompendo nettamente con la storia dell’antico Partito comunista e piantando in un terreno diverso le proprie nuove radici.
La prima occasione fu tra il 1989 e il 1992: cioè all’epoca del crollo dell’Unione sovietica e del suo impero e quindi della certificata infondatezza dell’atto di nascita del Partito comunista italiano.
Il quale però piuttosto che intendere la lezione, piuttosto che accettare la vittoria storica della socialdemocrazia divenendo un moderno partito europeo del lavoro (magari unendosi a chi lo era già da sempre…), preferì invece soprassedere e mettersi al coperto sotto l’ambigua insegna dell’aggettivo democratico e dell’espressione «di sinistra».
La seconda occasione per rompere davvero con il proprio passato si presentò al partito di ascendenza comunista con la sua partecipazione alla coalizione dell’Ulivo, vincitrice delle elezioni del 1996. Quando cioè esso rifiutò la proposta avanzata dagli amici più conseguenti di Romano Prodi di sciogliersi in una formazione progressista effettivamente nuova, quindi capace di mandare una buona volta in soffitta il catalogo di pregiudizi, formule polemiche, tic espressivi, che fino allora avevano costituito il repertorio d’obbligo della sinistra italiana egemonizzata dal Pci. Grazie a quel rifiuto, invece, non se ne fece nulla. Il Pds e poi il Pd con le loro rispettive eredità e insieme a tutto il repertorio che si è detto rimasero vivi e vegeti giungendo bellamente fino a noi.
Si è creato in tal modo nel nostro Paese un singolare contrasto. Mentre da Fiuggi in avanti la destra divenuta maggioritaria sembra aver operato un deciso cambiamento del proprio linguaggio (forse divenendo maggioritaria anche per questo?), sicché i pochi casi contrari fanno subito notizia, la sinistra, invece, continua a esprimersi ricorrendo al suo linguaggio e ai suoi slogan di sempre, quelli messi a punto nel suo periodo d’oro novecentesco. È vero che dall’altra parte, ogni volta che le capita, la presidente Meloni si fa un punto d’onore nell’usare il termine «nazione» e mai «paese», e che è l’unica, in ottima compagnia con il presidente Mattarella, che si avventura a usare un’espressione come «la nostra Patria», ma ormai da tempo il lessico suo e dei suoi è sostanzialmente il lessico standard comune alle classi governanti degli altri Stati europei.
A sinistra invece no. A sinistra il tempo sembra essersi fermato agli anni 60-70 del secolo scorso.
Fu allora infatti, nella lunga stagione del ’68, che il Pci — il quale peraltro fin dal ‘44 aveva fatto un uso sempre cautissimo e discretissimo dell’aggettivo «comunista» — prese a dispiegare nel proprio discorso pubblico l’aggettivo democratico nella sua più ampia vastità semantica. Tutto in quegli anni doveva divenire «democratico». Ed era spinto a farlo attraverso apposite istanze diciamo così programmatico-associative. Ci fu in tal modo la magistratura «democratica», la medicina «democratica», la scuola «democratica», la polizia e la stampa «democratiche». Dove l’aggettivo, come è noto, stava in realtà ad indicare il ruolo fiancheggiatore di ognuna di tali istanze nei confronti della sinistra rappresentata dal Pci, autoproclamatasi paladina e promotrice per definizione della democrazia stessa. Il tutto accompagnato dall’idea che ognuna delle suddette democratizzazioni rispondesse all’evidente dettato della Costituzione.
Fu un’abile strategia politico-comunicativa che però si è tramutata in un boomerang. Infatti, a causa della facile trasposizione del termine «democratico» a tutte le cause, in ogni tempo e circostanza, il discorso pubblico della sinistra si è trovato intrappolato in una stucchevole pigrizia espressiva che si ripete sempre eguale da decenni. E così, dalla stagione dell’«autunno caldo» a quella del governo Berlusconi e poi a quello Meloni, tutto ciò che non corrisponde ai propri punti di vista è puntualmente additato da parte della sinistra ogni volta come «antidemocratico» e «anticostituzionale». Sempre, immancabilmente, senza pensarci due volte, ogni cosa che pensano o fanno gli avversari è in automatico un attentato alla democrazia. Dalla divisione delle carriere dei magistrati alle nuove indicazioni per la scuola, dai rapporti con gli Usa a qualsivoglia intervento della polizia nelle piazze, ogni mossa o decisione della maggioranza è invariabilmente autoritaria, violenta, discriminatoria, non inclusiva, nazionalista, sovranista, una deriva verso lo stato di polizia, uno sfregio allo Stato di diritto, un colpo al cuore della democrazia appunto. Mai una volta però che a sinistra ci si chieda, ad esempio, perché, in che senso, il primo requisito della scuola dovrebbe essere un suo fantomatico carattere «democratico» e non, magari, la capacità di ottenere buoni risultati, di produrre il maggior numero di allievi preparati; o ancora perché sarebbe democratico fare entrare in Italia chiunque lo voglia sapendo che molto probabilmente finirà costretto a un lavoro schiavistico nei campi o preso in qualche giro criminale; ancora: perché mai polizia e carabinieri violerebbero le regole dello Stato di diritto se ad esempio cercano, anche con la forza, di impedire a un corteo di interrompere un’assemblea universitaria ad esso sgradita o di deviare da un percorso concordato avvicinandosi pericolosamente a qualche obiettivo sensibile.
Ciò non vuol dire che il governo della destra non possa, come tutti i governi, compiere scelte dannose o fare cose sbagliate e magari sbagliatissime. Ma il punto non è questo: il punto è che una sinistra che giudica qualunque azione dei suoi avversari immancabilmente un premeditato attentato alla democrazia, è un’opposizione che si priva della capacità di pensare e di costruire soluzioni alternative, finendo così per privarsi di ogni credibilità. È dunque un’opposizione che al Paese non serve. Che poi essa sia presumibilmente destinata anche a perdere le elezioni è un fatto che forse, almeno questo, nella suddetta sinistra qualche preoccupazione dovrebbe pure destarla.

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