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La lezione del Pnrr è che progetti per la crescita funzionano se gli obiettivi da raggiungere sono chiaramente indicati e accompagnati da verifiche periodiche dei progressi compiuti, soprattutto nell’attuare le riforme

Il rimbalzo della nostra economia, dopo la rapida uscita dal Covid (il Pil aumentò del 6% nel 2021 e del 4% nel 2022) si è esaurito nel 2023 e la crescita quest’anno torna sotto l’1%, seppur di poco: il governo prevede più 1%, il Fondo monetario internazionale più 0,7, la Commissione europea più 0,9. Finita la spinta (inutilmente costosa) dovuta al Superbonus, la crescita quest’anno dipende, quasi per intero, dal Pnrr e dalla nostra capacità di realizzare quanto previsto dal piano. Senza gli investimenti del Pnrr l’economia sarebbe sostanzialmente ferma.
Ma non è detto che l’effetto del grande piano europeo (220 miliardi in 5 anni) si esaurisca quando finiranno gli investimenti e si attueranno le riforme che sono la parte di gran lunga più importante del piano. I risultati già ottenuti, ad esempio nell’accelerare le cause giudiziarie, sia civili che penali, e a ogni grado di giudizio (illustrate questa settimana su L’Economia del Corriere) lasciano sperare che gli effetti del Pnrr non si esauriscano nel 2026, quando il piano si spegnerà. Lo scopo infatti non era dare un po’ di respiro all’economia per 4-5 anni, bensì spostarla su un sentiero di crescita più elevata. Un altro esempio è l’organizzazione degli acquedotti in una regione difficile come la Calabria. L’obiettivo era razionalizzare la distribuzione dell’acqua, finora frazionata fra una moltitudine di società idriche locali, tenute in vita solo per garantire posti nei consigli di amministrazione nominati dai sindaci. Il Pnrr ha rimosso il tabù. Nel 2022 una legge regionale ha disciplinato in maniera unitaria l’organizzazione del servizio idrico e di gestione dei rifiuti urbani, creando, per entrambi, un unico ambito territoriale corrispondente al alla regione e gestito da una sola società. Ci vorrà del tempo ma la strada imboccata è quella giusta.
La lezione del Pnrr è che progetti per la crescita funzionano se gli obiettivi da raggiungere sono chiaramente indicati e accompagnati da verifiche periodiche dei progressi compiuti, soprattutto nell’attuare le riforme. Il metodo Pnrr — obiettivi e verifiche — è ciò che è mancato al governo nell’affrontare problemi non oggetto del piano. Il livello medio dei salari nelle imprese private è inferiore del 10% rispetto alla Francia e del 20% se confrontato con la Germania. Osserva Marco Leonardi, professore alla Statale di Milano, che ciò che manca in Italia sono lavori di qualità: un lavoro di qualità è tale semplicemente quando è ben pagato. E non c’entra la tassazione: in Germania e in Francia la tassazione è simile, eppure i salari reali sono più alti che in Italia.
La situazione sta peggiorando: negli ultimi 5 anni, i salari reali in Corea del Sud sono aumentati dell’8 per cento, in Francia sono rimasti stabili e in Germana sono caduti del 4%. Ma in Italia sono caduti del doppio che in Germania. Poiché la crescita di un’economia dipende in gran parte dai consumi delle famiglie, è evidente che se il potere di acquisto dei salari scende, l’economia si contrae. Scrive Leonardi: «Se si hanno imprese troppo piccole, avremo relativamente pochi lavori di qualità. Per decine di anni abbiamo provato invano ad aumentare la dimensione delle nostre aziende, ma continuiamo ad avere imprese troppo piccole e produzioni non abbastanza tecnologiche, anche se vi sono nicchie di eccellenza, soprattutto nella manifattura».
Un’altra spiegazione è che in Europa in generale, e in Italia in particolare, nascono troppo poche aziende. Dall’inizio della pandemia gli Stati Uniti hanno registrato un boom di nuove imprese, con un aumento di quasi il 60%, mentre l’area dell’euro è semplicemente tornata al trend precedente alla pandemia. Questa tendenza è una caratteristica dell’economia europea: la crescita si basa su pochi settori stabili verso i quali vengono convogliate le risorse umane e finanziarie. Il risultato è che è più difficile che si sviluppi una cultura imprenditoriale.
Un progetto per la crescita richiederebbe di partire dalla creazione di più lavori di qualità: come indurre le imprese a crearli? C’entrano gli investimenti, ma soprattutto la qualità del capitale umano. Il decreto 19/2024 del febbraio scorso ha istituito un piano Transizione 5.0, ma le disposizioni attuative non sono ancora uscite. E sul capitale umano finora l’unica cosa davvero cambiata pare essere il nome del ministero: «Dell’Istruzione e del merito».
Il peso del debito pubblico sull’economia dipende non dal livello del debito (tanto meno se espresso in euro, come qualcuno ancora si ostina a fare), bensì dal rapporto fra debito e Pil. Un Pil che non cresce, o cresce a un tasso inferiore al tasso di interesse che lo Stato paga sul debito, alza l’onere del debito quanto un disavanzo nei conti pubblici. Investire nell’istruzione per migliorare la qualità del capitale umano, e quindi la produttività, fa certamente di più per ridurre il rapporto debito/Pil di un aumento delle tasse.
Il mondo è cambiato: siamo entrati in guerra, contro la Russia e per il clima. Che cosa avremmo detto se, durante la Seconda guerra mondiale, le spese per la difesa fossero state limitate dal vincolo del pareggio di bilancio? Torna alla mente una vignetta. È l’anno 2050: un vecchio seduto sotto un albero morto parla a un giovane, in un paesaggio desertificato: «Una brutta notizia: la terra è morta. Ma anche c’è una buona notizia: il rapporto debito/Pil è appena sceso sotto il 60%».

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