Non lasciano l’Italia perché non trovano lavoro, lavori se ne trovano, parecchi, ma sono lavori sempre più poveri. Tanti giovani emigrano alla ricerca, innanzitutto, di salari migliori
I giovani italiani che ogni anno si spostano all’estero, per continuare gli studi o per cercare lavoro in un altro Paese, erano 21 mila nel 2010, sono stati oltre 91.400 lo scorso anno. Non lasciano l’Italia perché non trovano lavoro, lavori se ne trovano, parecchi, ma sono lavori sempre più poveri. Tanti giovani emigrano alla ricerca, innanzitutto, di salari migliori. Non a caso l’emigrazione dei giovani ha accelerato dopo l’episodio di inflazione accesa dall’invasione russa dell’Ucraina nel 2022: in molti settori il potere d’acquisto dei salari non ha ancora ripreso quanto perso in quel breve periodo.
Nello scorso triennio, 2022-24, le retribuzioni lorde nella fascia d’età 25-30 sono scese, al netto dell’inflazione e rispetto al decennio 2014-24, del 3,5%. Nella fascia 31-40 del 5%. Non è un problema solo dei giovani, loro almeno possono scegliere di emigrare. Il problema di retribuzioni più basse che nel resto d’Europa non è nemmeno una novità degli ultimi tre anni, né è un problema che riguarda solo alcuni settori. Nel turismo, ad esempio, le nostre retribuzioni annue lorde erano, nel 2022 (quindi prima del balzo dell’inflazione, ma ultimo anno per il quale Eurostat pubblica statistiche europee comparabili) 26 mila euro in media in Italia, a fronte di 31 mila in Francia, 32 mila in Olanda. Le differenze sono più ampie in altri settori: nell’istruzione 32.700 euro l’anno in Italia, contro 53.200 in Germania, 40.700 in Francia.
L’incapacità dei salari di tenere il passo con l’inflazione dipende in gran parte da come funzionano i nostri contratti di lavoro. L’Italia è fatta di micro-imprese, oltre 4 milioni di aziende hanno meno di 10 addetti. Nessuna di queste imprese può permettersi un contratto aziendale di secondo livello, per sua natura più flessibile: per loro esiste solo il contratto collettivo nazionale di settore. I contratti nazionali sono negoziati, per il settore privato fra Confindustria e sindacato, per il settore pubblico fra sindacato e Aran, un’Agenzia dello Stato. Il problema è che questi contratti non vengono mai rinnovati a scadenza, o vicino alla loro scadenza. Ad esempio, il contratto dei metalmeccanici, che riguarda oltre 2 milioni di lavoratori, scaduto nel 2023, non è ancora stato rinnovato: Federmeccanica, l’organizzazione delle imprese metalmeccaniche, e il sindacato discutono da mesi, ma un accordo non si trova: un altro sciopero è stato indetto per venerdì. Alcune imprese hanno perso la pazienza con Federmeccanica e hanno negoziato da sole: così Stellantis 10 giorni fa, non appena insediato il nuovo amministratore delegato, ha firmato un proprio contratto. Ma poche aziende hanno la forza di Stellantis e possono negoziare da sole.
Anche il contratto per la Grande distribuzione, scaduto nel 2023, non è stato ancora rinnovato. Un contratto sempre più importante per le famiglie è quello che riguarda i lavoratori che curano anziani non autosufficienti, bambini e adulti con disabilità, malati in fase terminale, bambini privi di adeguato sostegno famigliare, donne vittime di violenza. Questo contratto, scaduto nel gennaio 2023 è stato firmato solo a gennaio di quest’anno.
Questi ritardi hanno due spiegazioni: per i contratti pubblici l’incentivo dei governi a rimandare i rinnovi e così alleggerire, almeno temporaneamente, la spesa pubblica. Per i privati abbassare, anche qui temporaneamente, ma due anni non sono pochi, il costo del lavoro sperando che il nuovo contratto non riesca a compensare, almeno non del tutto, i lavoratori.
Quando fu istituita, da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, la contrattazione collettiva nazionale con salari determinati sulla base dell’inflazione programmata, aveva un obiettivo chiaro: eliminare il meccanismo perverso della scala mobile e al tempo stesso garantire la tenuta del potere d’acquisto dei salari. Negli ultimi anni, e non solo nel settore dei servizi e nel pubblico impiego, questo secondo obiettivo è stato mancato. L’emigrazione di tanti giovani e l’impoverimento del ceto medio ne sono una manifestazione. Come suggerisce Marco Leonardi, bisogna lavorare ad una revisione radicale dei contratti.
Anziché applaudire la crescita dell’occupazione il governo dovrebbe chiedersi se occupazione povera aiuta la produttività del Paese e la formazione di un capitale umano che poi alla prima occasione non emigri. Non sono convinto che, se grazie al boom del turismo, diventassimo tutti chef, la nostra economia diverrebbe più produttiva. Ricordo che uno dei fattori che determinò il successo e la rapidità dell’industrializzazione della Corea del Sud fu una politica che, mantenendo alti i salari, riuscì ad attrarre capitale umano nell’industria e così aumentare la produttività.