4 Settembre 2025
bandiera Europa

Tra Stati Uniti e Cina, è tempo di una presa di consapevolezza dell’Europa e di che cosa si sia costruito in questi anni per continuare nel percorso di integrazione

Che cosa non fa e non è l’Europa, è molto chiaro. E risulta ancora più evidente in questi giorni. Una parte importante del mondo, chiamata dal leader cinese Xi Jinping, si vede riunita attraverso i suoi capi di Stato, spesso autocrati e in qualche caso autentici dittatori, a Tianjin. Sotto l’insegna della Shanghai cooperation organization (Sco), creata dalla Cina e fatta rivivere per l’occasione, troviamo oltre a Pechino, India, Russia, anche altri Paesi, la popolosa Indonesia, l’Iran in cerca di legittimazione, l’Egitto. Più della metà della popolazione mondiale, un quarto mal contato del Pil, della ricchezza globale.

Tutti di fatto a marcare la distanza dall’America di Donald Trump che il 2 aprile scorso, con quella tabella di dazi inflitti al resto del mondo, avrebbe voluto mostrare chi «dava le carte». L’Europa? Non pervenuta. O meglio, in quella cittadina portuale che è anche il principale accesso marittimo a Pechino, accolti da Xi Jinping c’erano anche il presidente serbo Aleksandar Vucic e il premier slovacco Robert Fico. Il primo in rappresentanza della Serbia che dal 2014 ha avviato negoziati ufficiali per aderire all’Unione europea. Il secondo dal 2009 nel cerchio più ristretto dell’Unione, quello dei paesi che condividono anche la moneta unica, l’euro. Un segnale piccolo, indiretto, minimo forse ma indicativo di quanto lo «scetticismo nei confronti dell’Europa» come lo ha chiamato di recente Mario Draghi, sia manifesto.

È lungo l’elenco delle mancanze dell’Europa. Ma troppo spesso le incapacità più o meno evidenti a Bruxelles, si sono tramutate in un alibi per i governi per non fare; a volte, ed è peggio, sono arrivati a scaricare sull’Unione pigrizie e proprie manchevolezze. Un esempio per tutti: è l’Europa che non investe nell’intelligenza artificiale, meno del 10% rispetto a quanto fanno gli Stati Uniti, o i singoli governi che la compongono che non riescono a costruire alleanze alzando il livello della spesa?

Profuma di alibi anche quell’eccesso regolatorio di cui sicuramente la Ue è affetta e che farebbe bene al più presto a mettervi rimedio. Ma questo non può giustificare l’inazione in campi dove quelle regole di fatto sono inesistenti, la difesa per esempio. Anzi, è l’Europa che si è mossa proprio in questo settore con il programma Safe, 150 miliardi di prestiti ai Paesi membri per agevolare gli acquisti congiunti di armamenti. Programma andato esaurito e al quale hanno aderito 19 Paesi.

È questo il cambio di approccio che deve avvenire nel nostro Continente: usare tutti gli strumenti dell’Europa che già esistono per reagire a una situazione geopolitica che è mutata e che rischia altrimenti di non solo metterci da parte ma addirittura mettere in discussione le conquiste sinora raggiunte. La sveglia a Tianjin è suonata forte. Non è più tempo di analisi. Rapporti come quello Draghi o di Enrico Letta sulla Saving investment union o dell’ex presidente finlandese Sauli Niinisto sulla difesa, hanno indicato con chiarezza le linee di direzione sulle quali muoversi. È tempo invece di una presa di consapevolezza dell’Europa e di che cosa si sia costruito in questi anni per continuare nel percorso di integrazione.

Chiediamoci quanto spazio si è lasciato alla propaganda russa che ha continuato a parlare di aggressione Nato e di espansionismo europeo per giustificare l’invasione dell’Ucraina. Nessuna stanchezza può giustificare l’assenza della voce di Bruxelles nel ribadire che la richiesta di adesione all’Unione è dovuta alla capacità di attrazione di quei valori fondanti dell’Europa: la pace, i diritti, la difesa della democrazia, la sicurezza che nessuno violerà i confini degli Stati membri.

Altro che espansionismo, si chiama forza dei valori. Ben diversa dalla forza delle armi, del terrore, come quelle usate da Putin per piegare, non riuscendoci, il popolo ucraino; sperando però di fare come aveva già mostrato di essere capace in Cecenia, Georgia, Siria, Crimea. Non è da considerare un fatto normale che l’aereo della presidente della Commissione Ursula von der Leyen sia stato costretto ad atterrare perché disturbato da atti della guerra ibrida russa. Siamo abituati a reagire ad attacchi che gli esperti militari chiamano «cinetici», quelli cioè condotti attraverso truppe e armi cosiddette convenzionali.

È evidente che siamo in presenza di analoghi attacchi quando si mettono fuori uso infrastrutture di Stati sovrani. Come da tempo sta facendo la Russia non ostacolata se non spalleggiata, da Pechino, come si è capito in questi giorni di vertice cinese. E bene ha fatto von der Leyen a sottolinearlo. Non si tratta di «sentirsi in guerra». Quanto di comprendere che il confronto-scontro con altri modelli di governo nel mondo si è alzato di livello. Di esserne consapevoli e agire di conseguenza.

Non partiamo da zero, come spesso si tende a pensare. Dovremo smetterla di guardare all’Europa come una sorta di parola «ombrello» nel quale far finire frustrazioni di politica interna e di mancanza di peso internazionale. O una sorta di monolite. È un processo avviato oltre 70 anni fa, la cui accelerazione è però ineludibile. Non necessariamente con vagoni che procedono alla stessa velocità.
È accaduto con l’euro. Accadrà domani quando si riuniranno i cosiddetti «volenterosi» sull’Ucraina. Peraltro con quei britannici oggi fuori dall’Unione, elemento visibile di quella incapacità di far comprendere i vantaggi dell’Europa che ha causato la Brexit. Vantaggi evidenti. Purché a esserne convinti ne siano le istituzioni europee innanzitutto e i leader dei governi. Che dovranno mostrare di aver capito il richiamo forte e inequivocabile che arriva da Tianjin: la partita che si sta giocando richiede che in campo ci sia l’Europa. O l’esito possiamo già scriverlo a tavolino.

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A.N.D.E.
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