Alla base del diventare adulti vi è proprio la competenza nel gestire questa forma di energia primordiale, imparando a usarla come strumento costruttivo e non distruttivo
Ho letto con sgomento quanto accaduto a Graz, la violenza e la distruttività che si è riversata, per motivi per lo più ignoti, su chi dovrebbe esserne protetto per natura, per età e per innocenza. Il pensiero si è collegato ai fatti di cronaca del nostro paese, ai femminicidi, agli omicidi per futili motivi. Lo sgomento si è subito collegato a una domanda: viviamo improvvisamente in un mondo più violento? Cosa sta succedendo nel profondo dei nostri giovani che rende sempre più frequenti comportamenti distruttivi, incuranti dell’umanità dell’altro?
Sappiamo da molti studi che l’adolescenza e la giovane età adulta sono un periodo di maggior impulsività su base neurobiologica, ma questa non può essere certo l’origine di quanto osserviamo. Assistiamo a comportamenti gravissimi per cause banali: un commento, un brutto voto, l’interruzione di un legame affettivo. Come mai il fallimento è diventato così importante da dover essere affrontato in modo così violento? In ragazzi che commettono atti del genere in gioco vi è spesso l’integrità del senso di sé e del proprio valore. Il fallimento acquisisce un valore assoluto, una disconferma profonda del sé.
La violenza è un linguaggio comportamentale distorto, una deformazione estrema di aggressività (dal latino ad-gredior, avvicinarsi) che è la base per potersi avvicinare alle cose che reputiamo importanti, andando con decisione verso ciò che desideriamo. È un comportamento che non dovrebbe attivarsi lasciando invece spazio a un’energia controllata, instradata verso una meta. Alla base del diventare adulti vi è proprio la competenza nel gestire questa forma di energia primordiale, imparando a usarla come strumento costruttivo e non distruttivo.
In fondo tutta la cultura, tutto il nostro lungo percorso di civiltà è un tentativo di orientare questa spinta propulsiva profonda, di darle una forma creativa. E l’adolescenza è un momento centrale perché cerniera tra l’infanzia e l’età adulta, momento in cui si trasmette i valori della nostra civiltà, in cui l’uomo acquisisce controllo, si orienta creativamente alle passioni, impara sempre più ad accettare il limite, tutte condizioni necessarie a una modalità relazionale matura. Cosa si è interrotto nel nostro percorso culturale, nel nostro modello educativo per far sì che i nostri giovani, che più che in ogni altra epoca della vita sono pieni di energia e di vitalità, siano improvvisamente, e con questa frequenza, protagonisti di fatti così drammatici e violenti? Cosa ha permesso a questo giovane di covare e far crescere la distruttività dentro la propria mente e farla esplodere in modo discontrollato?
È necessario proporre chiavi di lettura complesse di questi fenomeni. Evitare le semplificazioni che cercano esclusivamente nella malattia psichica o in una società malsana, nell’assenza degli adulti e del loro ruolo educativo o nell’incapacità di creare spazi di ascolto del dolore i primi responsabili di questi comportamenti.
È chiaramente vero che questi sono aspetti in gioco. Così come è vero che alcune condizioni specifiche, quali l’uso di sostanze, l’aderenza a modelli delinquenziali, l’esposizione precoce e ripetuta alla violenza (anche in famiglia), hanno un ruolo importante.
Eppure va ricordato che la costruzione psichica, morale e umana di ognuno di noi è determinata dall’interfaccia di un ecosistema di dimensioni differenti: incidono aspetti soggettivi, aspetti socio/relazionali, l’ambiente di vita, l’educazione, la cultura e la sua rappresentazione attraverso i sistemi di informazione, la spiritualità. Tutti ambiti che dovrebbero parlarsi e condividere un’antropologia educativa. Da professionista che parla e ascolta i giovani accompagnandoli mentre affrontano le difficoltà e le loro patologie, credo sia ormai il momento di richiamare a un nuovo patto tra istituzioni che connettano cura, educazione, aiuti concreti.
Possiamo fare di più per favorire lo sviluppo delle potenzialità dei nostri giovani, aiutarli ad acquisire sicurezza in sé, maggior consapevolezza emotiva e competenze relazionali.
Possiamo imparare a valorizzare la ricchezza dell’adolescenza e a proporre ai nostri giovani un reale investimento sul loro futuro, che non li lasci soli a navigare in situazioni di angoscia. Abbiamo l’obbligo di farlo assieme. Nessuno si salva da solo.