L’intervista al Corriere della premier Giorgia Meloni: «La riforma della giustizia non è punitiva per i magistrati. Marine Le Pen sta facendo un percorso interessante»

Dalla giustizia all’Ucraina, dal fisco ai prossimi assetti europei, dal premierato al caso De Luca, dal freno a una rielezione di Ursula von der Leyen a nuove aperture a Marine Le Pen e a Viktor Orbán, fino all’appello a Elly Schlein di «avere coraggio» e all’obiettivo elettorale dichiarato per le Europee: «Se mi va bene il 26%? Sto».  A porle le domande dei lettori sulla strettissima attualità è Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del Corriere, che alla fine la porta su un terreno che potrebbe essere minato ma che la premier trasforma in una sorta di appello al coraggio a colei che ritiene l’unica rivale, la leader dell’opposizione Elly Schlein. E succede quando Sarzanini le chiede se non fosse stato più logico, da presidente del Consiglio, presenziare a Brescia all’anniversario della strage e non a Caivano, dove si è scontrata con il governatore della Campania.
A Brescia, spiega, il governo c’era, ma a Caivano è voluta andare perché ha dimostrato di aver mantenuto la promessa del risanamento del territorio e «mi ha dato grandissima gioia». E qui il punto: poteva evitare di scendere in guerra con De Luca? «Io sono stata insultata, e banalmente mi sono difesa. A sinistra allora nessuno mi difese, adesso si stracciano le vesti. Si dovrebbero vergognare. Persone che hanno due pesi e due misure, che non credono a quello che dicono, che pensano che hanno più diritti degli altri». E se «tanti mi hanno scritto, anche di sinistra, dicendomi che avevo ragione», chi l’ha delusa è la leader del Pd: «Mi dispiace che abbia perso un’altra occasione per dimostrare che può essere il cambiamento che aveva promesso. Le avevo chiesto pubblicamente allora di dire qualcosa e non ha avuto il coraggio di farlo, ieri invece ha commentato». Ma «continuo a tifare perché tiri fuori il coraggio che la gente si aspetta da lei come leader e come donna», dice la premier. Perché «quello che è successo ieri ha a che fare con la questione femminile: De Luca non ha mai usato quella parola con nessun altro, il messaggio è che le donne si possono insultare perché sono deboli. No, non siamo deboli. I bulli sono deboli, bravi a fare i gradassi dietro le spalle, ma quando li affronti non lo fanno più. È finito il tempo in cui le donne devono subire. E mi aspetto su questo di sentire anche una parola delle femministe».

Giustizia, niente nemici
L’intervista in realtà era iniziata dal tema del giorno, la riforma della giustizia. Che Meloni rivendica: «Mi spiace che qualcuno la veda come una vendetta, ma io non sono per la conservazione e lasciare le cose che non funzionano come stanno. Non ho paura di chi vuole combattermi per mantenere lo status quo né resto per scaldare la sedia». E ancora: «Di che cosa dovrei vendicarmi con i magistrati? Non capisco perché si possa considerare punitiva nei confronti dei pubblici ministeri la separazione delle carriere. Considero bizzarro che possa essere una vendetta, uno si vendica di qualcuno che ha fatto qualcosa di male, si vendica di un nemico. Non considero i magistrati nemici, chiedo a chi ha fatto questa dichiarazione se pensa che chi governa sia un nemico».
Meloni non si piega a chi vorrebbe che troncasse i rapporti, o non li aprisse, a forze populiste e di estrema destra. Che si chiamino Le Pen o Orbán.
Sulla prima anzi c’è una decisa apertura: «Anche di noi si diceva che eravamo una forza anti europea, poi i nodi vengono al pettine. Si può essere europeisti e chiedere che l’Europa non si occupi di tutto», è la premessa. Quindi, Orbán: «Non sono completamente d’accordo con nessuno con cui parlo, ma non sarò mai d’accordo con l’idea che la Ue sia un club, un salotto radical chic: penso che in un tempo come questo chi lavora per dividere faccia un errore strategico fondamentale, ha molto più senso chi lavora per cercare le sintesi».
Ma è su Le Pen che arrivano parole importanti. Il rapporto con von der Leyen, precisa, è politico non umano: «Non faccio la cheerleader, l’amichetta. Io sto dalla parte dell’Italia. Io sono la presidente del Consiglio e lei la presidente della Commissione Ue, era mio dovere lavorare assieme. Ma sono anche il presidente dei Conservatori europei, lavoro per costruire la maggioranza alternativa alla sinistra e alla maggioranza arcobaleno, e ho interlocuzioni. Le Pen sta facendo un percorso interessante, in questa legislatura, a volte ci siamo trovati dalla stessa parte».
E proprio perché «si stanno formando diverse maggioranze» la «sinistra è nervosa». In ogni caso, prima di ogni decisione andrà «ascoltato il popolo» che voterà e creerà i nuovi equilibri, per questo Meloni non si sbilancia sul possibile nuovo presidente, né svela se il suo possa essere italiano (ovvero Draghi): «Io un nome ce l’ho. Però non si parte dal candidato, ma dalla maggioranza. Solo così si evitano le maggioranze arcobaleno».

Premierato e Quirinale
Meloni respinge ogni critica alla riforma del premierato, e rivendica il fatto che il capo dello Stato — se il testo passerà — non avrà più il potere di «fare supplenza a una falla della politica». E cioè quella per cui se i partiti non riescono a formare una maggioranza la palla passa al Quirinale per la nomina di un nuovo capo del governo e la formazione di una coalizione magari spuria, come negli ultimi governi tecnici. «Le prerogative e i poteri del presidente restano intatti, tutti, ha anche quello nuovo di revoca dei ministri e tutti quelli di garanzia». Ma scegliere un governo quando una maggioranza non c’è è per lei una forzatura che mette a rischio lo stesso ruolo di arbitro del capo dello Stato: «Non lo aiuta, perché deve schierarsi».
Quindi avanti con una riforma che «aiuta tutti» a rendere la politica più forte, ad avere un orizzonte di legislatura di cinque anni, per cui non si capisce l’opposizione «del Pd, a meno che non pensino che non vinceranno mai un’elezione…». E Conte? Si lamenta che non lo nomina mai, la stuzzica Sarzanini. E lei, ridendo: «Okay, ciao Giuseppe!» con tanto di gesto del saluto.

Aiuti all’Ucraina
È un punto sul quale Meloni non ha mai cambiato idea. Servono. «Non dimentichiamo che oggi c’è una recrudescenza da parte della Russia nel colpire direttamente la popolazione civile. Il dibattito nasce dal fatto che  e dialogare», e non è quello del redditometro, per come è congegnato. «C’è differenza tra chi non dichiara nulla e va in Ferrari e chi ha un basso reddito e va in pizzeria. Noi per ora abbiamo visto un Fisco che vuole fare cassa, e questo fa percepire lo Stato come nemico. Noi invece diciamo: se non evadi, io ti do una mano».

Obiettivo 26%
Non vuole porsi limiti Meloni, ma nemmeno indicare una soglia percentuale che potrebbe essere poi irrealizzabile. Nonostante sia capolista ovunque, si adegua a quello che gli ultimi sondaggi attribuiscono a Fratelli d’Italia. E quindi, quando la vice direttrice del Corriere le chiede se le andrebbe bene prendere il 26% dei voti, si apre in un sorriso e batte la mano sul tavolo: «Sto!». I conti reali, come sempre, si faranno solo alla fine.

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