
Negli schieramenti politici manca un vero piano per gestire la convivenza in un’Italia multietnica. Superando le barriere
L’Europa è a un tornante della sua storia e non siamo pronti ad affrontarlo. L’Europa è alle prese con una trasformazione epocale: quelle che erano un tempo società nazionali diventano con rapidità impressionante, o sono già diventate, società multietniche. Tra non molto, anche in Italia, saranno numerosi e sempre più visibili, nelle professioni e anche, a poco a poco, in ruoli dirigenziali, i figli di immigrati di origine extraeuropea. È il tema più politicamente incandescente che ci sia nelle democrazie occidentali: più di ogni altro divide l’opinione pubblica e influenza gli esiti delle consultazioni elettorali. Troppo spesso le parti politiche lo affrontano con slogan rozzi, semplicistici (viva gli immigrati, abbasso gli immigrati) che nascondono i problemi e inducono a fughe dalla realtà. La realtà è che la multietnicità è un fatto e che è da questa constatazione che bisogna partire per capire come tentare di governarla. Se si vuole governarla bisogna porsi una domanda, l’unica che conti: come si fa a garantire (o a tentare di garantire) un futuro di pacifica convivenza fra persone di differente provenienza culturale?
Come si fa a far convivere persone con differenti credi religiosi, differenti esperienze alle spalle, differenti sensibilità, differenti modi di rappresentarsi il mondo esterno?Per alcuni sembra che l’unico problema che conti sia la lotta all’immigrazione clandestina. Se si riesce a limitarla, tutto andrà per il meglio.
Altri fanno un bel mischione, non distinguono fra clandestini e regolari, li vogliono accogliere tutti, regolari e irregolari (è la posizione dei più estremisti della «tribù» di sinistra) oppure li vogliono mandare via tutti (i più estremisti della «tribù» di destra). Posizioni tutte quante irrealistiche adottando l’una o l’altra delle quali non si governa un bel niente. Poiché distinguere fra cose diverse è il primo passo per tentare di chiarirsi le idee, separiamo il tema della clandestinità da quello della convivenza fra migranti regolari e indigeni (europei da più generazioni).
Se ci limitiamo a osservare il caso italiano, le forze di sinistra, in materia di clandestinità, appaiono più in difficoltà di quelle di destra. Contro la clandestinità non sembrano avere nulla da proporre. Ma così non aiutano i loro stessi elettori a distinguere fra clandestini e regolari. Con il risultato di non contrastare la tendenza di molti italiani a trasferire sui secondi l’ostilità per i primi. Lasciare intendere che si è favorevoli a una accoglienza generalizzata porta in un vicolo cieco. E non favorisce la diffusione di atteggiamenti favorevoli nei confronti degli stessi migranti regolari. Come ha mostrato il risultato del referendum sulla cittadinanza di poche settimane fa. È emersa una rilevante frattura fra una parte dell’elettorato (in larghissima misura di sinistra) e le posizioni ufficiali in tema di immigrazione dei partiti che, in teoria, quell’elettorato rappresentano. Per quel che si vede né il fatto è stato meditato né ha portato a ripensamenti. In tema di clandestinità vanno fatte due osservazioni. La prima è che essa ha un rapporto stretto con la questione della sicurezza. E garantire sicurezza (o quanto meno, prometterlo) è il compito ineludibile di chiunque voglia governare un Paese.
La seconda osservazione è che sono gli stessi migranti regolari, quelli inseriti, quelli che lavorano, ad essere contrari ai clandestini. E pour cause: sanno bene che l’ostilità degli italiani per i clandestini può trasferirsi su di loro, può danneggiarli. Essendosi intestata la lotta alla clandestinità, la destra ha dunque un vantaggio sulla sinistra. Non è un caso se altrove, forze di sinistra (in Gran Bretagna, in Danimarca) e conservatori moderati (come la Cdu tedesca) abbiano, in tema di clandestinità, le stesse posizioni del governo Meloni. Se non che limitare, per quel che si può, la presenza di migranti clandestini è solo un aspetto del problema.
Resta l’altro, il più delicato: come garantire la convivenza fra gli indigeni (italiani da più generazioni) e gli appartenenti agli altri gruppi? Non considerando i veti politici, forse insuperabili, lo ius scholae, sembra, a prima vista, una buona idea. Lo sarebbe, in effetti, se non fosse che la scuola è stata maltrattata per decenni. E gli insegnanti, sia quelli preparati e capaci, sia quelli che non sono né l’una né l’altra cosa, devono gestirsi ciascuno per proprio conto i problemi della multietnicità entro le classi. La scuola, si dice, può trasmettere ai migranti i nostri cosiddetti «valori». Ma non c’è terreno più scivoloso di questo. Ci sono tante classi in cui i figli di migranti sono la schiacciante maggioranza. E dunque le regole della convivenza fra culture diverse (l’italiana e le altre), quelle che si sperimentano nella quotidianità dei rapporti, sono poco applicabili. Si consideri poi il fatto che il corpo insegnante è come il resto dell’Italia: diviso sui fondamentali. Ci sono insegnanti che hanno la capacità e l’intelligenza per insegnare regole di convivenza. Ma ce ne sono altri che non sono in grado di farlo. La scuola italiana non è diversa dalle altre istituzioni educative occidentali. Nelle quali non sono pochi i docenti che, secondo la moda vigente, attribuiscono all’Occidente tutte le colpe e finiscono per instillare nei giovani discenti di provenienza extraoccidentale l’idea che essi siano in credito, che abbiano diritto a un risarcimento. Un modo certo per alimentare conflitti anziché convivenza.
Nei Paesi che hanno conosciuto la multietnicità prima di noi le politiche fin qui sperimentate hanno mostrato la corda: non ha funzionato il modello multiculturale (Gran Bretagna, Paesi Bassi) né quello assimilazionista (Francia).Come indicano, in questi e negli altri Paesi europei, i tanti segnali di conflitti interetnici. Poiché l’inverno demografico italiano rende ridicola l’idea che si possa fare a meno degli immigrati, occorre che un po’ di teste pensanti, quale che ne sia l’orientamento ideologico o ideale, comincino a riflettere sulle strategie da adottare per tentare di garantire a tutti una civile convivenza.