Gli effetti dell’obiettivo Nato di portare le spese al 5% del Prodotto interno lordo del nostro Paese. Le preoccupazioni di Banca d’Italia, Bce, Upb e Corte dei Conti

Come fare una manovra aggiuntiva di finanza pubblica da circa otto miliardi l’anno, ogni anno, per dieci anni. Per un totale di circa 450 miliardi di maggiore spesa da qui al 2035, quando in base agli impegni presi dall’Italia al vertice Natode L’Aia ciascun membro dell’Alleanza dovrà aumentare i propri stanziamenti di bilancio dal 2% al 5% del prodotto interno lordo. Per raggiungere l’obiettivo l’Italia dovrebbe aumentare il budget annuale per la difesa e la sicurezza dai 46 miliardi attuali (il 2% del Pil che secondo il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti sarebbe già raggiunto nel 2025 riclassificando alcune spese, anche se i dati Nato provvisori indicano ancora l’1,5%), a 110 miliardi. La spesa complessiva del decennio per gli armamenti raddoppierebbe per arrivare a quasi 900 miliardi.

I calcoli
E questo se tutto va bene, perché i calcoli informali del governo sono stati fatti a Pil invariato che invece, anche se poco, quasi certamente aumenterà, rendendo più salato il conto.La premier Giorgia Meloni parla di impegno «significativo, ma sostenibile» e garantisce che «nessun euro sarà tolto alle priorità degli italiani». Di sicuro sarà un compito difficilissimo, perché l’impatto della scelta sui conti pubblici italiani ancora fragili rischia di essere pesante. Almeno, questo dicono la Banca centrale europea, la Banca d’Italia, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, e la Corte dei conti. E lo stesso ministro dell’Economia non nasconde le sue perplessità, se non altro perché le regole europee, che lui definisce «stupide e senza senso», non aiutano.

La clausola trappola<
Una di queste è l’esclusione delle maggiori spese per la difesa dal computo del deficit, la «clausola di salvaguardia» proposta da Bruxelles nel piano per agevolare il riarmo. Fino al 2029 la Ue è disposta a concedere un «bonus» a ogni Paese per spendere fino all’1,5% del Pil in più per la difesa. Ma per un Paese come l’Italia che ha già il deficit oltre il 3% del Pil ed è soggetto alla procedura per il disavanzo eccessivo non funziona. Chi è sotto il 3% può sforare senza rischi, chi è sopra, come noi, rischia «di non uscire mai più» dalla procedura come dice Giorgetti, che punta a rientrare sotto il tetto del deficit nel 2026.

Le proiezioni
Secondo l’Ufficio di Bilancio se ci limitassimo a una maggior spesa per la difesa di 0,25 punti di Pil nel ‘25 e altrettanti nel ‘26, per un totale di 12,3 miliardi, il deficit tornerebbe sotto al 3% un anno dopo, nel 2027. Se usassimo tutto il margine, l’1,5% del Pil, addio: rientreremmo sotto il 3% nel 2030, ma ci ritorneremmo stabilmente dal 2034.L’impatto sul debito, che è il vero tallone d’Achille della finanza pubblica italiana, sarebbe ancora più evidente. Con l’1,5% di spesa in più per la difesa (la Nato però ci chiede il 3%) il debito in rapporto al Pil tornerebbe a salire nel 2032 e raggiungerebbe il 139% nel 2041 (25 punti in più dello scenario prefigurato dal governo nel Piano di Bilancio, che al 2041 vede il debito al 114%). Anche la Bce è preoccupata per l’impatto che potrebbe avere l’uso della clausola Ue nei paesi più indebitati. Figuriamoci una spesa ancora più alta.

Prudenza obbligatoria
Solo questo basterebbe a spiegare la prudenza italiana nell’affrontare l’incremento della spesa militare concordata in ambito Nato, anche se gli accordi de L’Aia sono molto più «comodi» rispetto a quanto prefigurato alla vigilia: dieci anni per raggiungere gli obiettivi, con la verifica nel 2029 e un ampliamento delle spese ammissibili. In ogni caso l’Italia non chiederà l’attivazione della clausola Ue nel ‘25 e nel ‘26, poi si valuterà anche in funzione dell’economia. L’impatto della maggior spesa per la difesa sulla crescita sarà comunque limitato, e questa è un’altra preoccupazione di Giorgetti.

Tante armi poco Pil
Gli investimenti nel settore militare sono quelli che «pagano» di meno in termini di ritorno sull’economia. Secondo l’Ufficio di Bilancio il moltiplicatore è pari a 0,5: ogni euro speso nella difesa produce un aumento del reddito di 50 centesimi. Dunque non si ripaga, né ha effetti strutturali positivi a lungo termine, come possono avere gli investimenti nelle infrastrutture, nell’istruzione e nella sanità, che sono i settori che hanno il moltiplicatore più alto, anche superiore a 1. Questo perché buona parte della spesa per la difesa viene assorbita dalle importazioni, in media circa il 60%, e va ad arricchire Paesi stranieri. Arrivare a spendere l’1,5% in più l’anno (37 miliardi) entro il 2029 porterebbe a una crescita cumulata del Pil di appena un punto in più, in quattro anni, rispetto allo scenario di base.

Scelte difficili
L’esclusione della spesa per la difesa dal deficit, altro motivo di diffidenza sulla clausola Ue, si esaurirà comunque nel 2029. Dopodiché la maggior spesa per il riarmo, che sarà divenuta strutturale, dovrà essere coperta con le risorse dei bilanci nazionali. La Commissione Ue usa un eufemismo quando afferma che si dovranno «riorientare le priorità di bilancio»: c’è il rischio concreto che per finanziare la difesa servano tagli ad altre spese o nuove tasse. Se arrivasse al 5%, dunque 110 miliardi l’anno, la spesa militare rappresenterebbe, dopo le pensioni (oggi 122 miliardi), la maggior spesa di bilancio, più della sanità (88 miliardi), quasi il doppio di quanto si spende per la scuola (56) o le politiche sociali (66).

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A.N.D.E.
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