In Cambogia tra il 1975 e il 1979 morirono quasi due milioni di persone, uccise da un atroce miscuglio di ultra-marxismo maoista e ultra-nazionalismo xenofobo
Quando presero il potere il 17 aprile 1975, mezzo secolo fa, i Khmer rossi di Pol Pot volevano fermare la storia e farla ripartire a modo loro. E a modo loro ci riuscirono: in Cambogia morirono quasi due milioni di persone, uccise da un atroce miscuglio di ultra-marxismo maoista e ultra-nazionalismo xenofobo. Il regime crollò il 7 gennaio 1979 ma il piccolo Paese asiatico conobbe altri vent’anni di guerra civile.Oggi, assediati come siamo da altri e più prossimi orrori, stiamo dimenticando, abbiamo già dimenticato. Perché la memoria va cercata e coltivata. Ebbene, una grande autrice italiana che aveva esperienza diretta della ferocia del Novecento, Natalia Ginzburg, fu pronta ad ascoltare una delle prime testimonianze da una terra di cui ammetteva di non sapere «assolutamente nulla».
Ginzburg tradusse e curò un libro uscito in Francia nel 1984, «Il racconto di Peuw bambina cambogiana», memoir di una giovanissima superstite del massacro, accolta a Parigi da una famiglia d’origine polacca. La ragazzina, cui i genitori adottivi avevano dato il nome di Molyda, si era salvata con soli tre cugini: aveva perso tutta la famiglia, tutta l’infanzia, ma non sé stessa. Einaudi pubblicò il libro nel 1986, una riga sulla copertina indicava Molyda Szymusiak come «una Anne Frank dei nostri anni». Dentro, 355 pagine di morte e di speranza che suggerirono a Ginzburg una amara considerazione sui fallimenti delle rivoluzioni (e quella in Cambogia aveva alimentato tante speranze) ma soprattutto sulla precarietà del bene:«È forse ingenuo credere che da motivazioni sacrosante debba sempre nascere un mondo migliore. A volte succede il contrario». Molyda poi si è innamorata e sposata, ha avuto due figli. Il suo libro, che meriterebbe di essere ristampato, ha addirittura un seguito («La nuova vita di Peuw», traduzione di Silvio Bellotti, Narcissus, 2013). Alla memoria serve la voce: la voce di Primo Levi, di Anne Frank, di Molyda. Ma le voci vanno ascoltate, come insegna Ginzburg. La testimonianza o è un passaparola o non è niente.