La principale area di intervento della legge riguarda la somministrazione di lavoro a termine, per la quale vengono allentate, in casi particolari, alcune rigidità tipiche dell’istituto, generalmente considerato dal legislatore come uno strumento eccezionale, e dunque da sempre sottoposto a limiti e condizioni

Le nuove “Disposizioni in materia di lavoro” entrate in vigore lo scorso 12 gennaio confermano, ove ve ne fosse bisogno, la preferenza dell’attuale legislatore per la tecnica del “cacciavite”: interventi specifici e mirati ma privi dell’ambizione di una agenda riformatrice.
La principale area di intervento della legge riguarda la somministrazione di lavoro a termine, per la quale vengono allentate, in casi particolari, alcune rigidità tipiche dell’istituto, generalmente considerato dal legislatore come uno strumento eccezionale, e dunque da sempre sottoposto a limiti e condizioni.
Con l’entrata in vigore della nuova legge, i lavoratori assunti a tempo indeterminato dalle agenzie del lavoro potranno, in ragione della stabilità del loro rapporto, essere inviati in missione a termine presso le imprese per un periodo anche superiore ai 24 mesi, e il loro utilizzo da parte di dette imprese non verrà computato nel limite massimo del 30% complessivamente previsto per i rapporti di lavoro a termine (somministrati e non). Analogamente, non verranno conteggiati ai fini di tale limite le somministrazioni di lavoro a termine stipulate per determinate esigenze (svolgimento di attività stagionali o specifici spettacoli, avvio di start-up, sostituzione di lavoratori assenti) o per impiegare lavoratori con più di 50 anni. A completamento del pacchetto di misure di deregulation in tema di somministrazione, le nuove norme consentono alle agenzie per il lavoro di assumere a termine, senza causale, particolari categorie di lavoratori svantaggiati.
Si tratta senza dubbio di misure che introducono una maggiore flessibilità per le imprese che abbiano la necessità di incrementi temporanei della forza lavoro senza dover ricorrere ad assunzioni dirette; allo stesso tempo, la nuova legge non è ragionevolmente accusabile di favorire la precarietà, poiché presuppone alternativamente la stabilità del rapporto di lavoro fra dipendente e agenzia di somministrazione, o particolari esigenze occupazionali tassativamente elencate.
L’approccio “chirurgico” dell’attuale legislatore segna una distanza rispetto alle grandi riforme del passato più recente, che avevano introdotto cambiamenti strutturali nel mercato del lavoro. Proprio la maggiore flessibilità introdotta dagli ultimi interventi organici, come la legge Fornero e il Jobs Act (pur progressivamente depotenziato da numerose pronunce giurisprudenziali) oggi contribuisce, insieme ad alterni segnali di ripresa economica e a oggettivi fattori demografici, a una più favorevole situazione occupazionale che riduce l’urgenza politica ed economica di riforme strutturali di questa portata.
Il problema urgente e irrisolto del mercato del lavoro italiano resta tuttavia il sostegno ai salari. Il potere d’acquisto delle famiglie è eroso dall’inflazione e dalla staticità delle retribuzioni, che restano tra le più basse in Europa. Ma in un’economia di mercato qualsiasi intervento sui salari non può essere disgiunto dalla questione della produttività. L’Italia sconta da decenni una stagnazione della produttività che rappresenta un freno non solo alla crescita economica, ma anche al miglioramento delle condizioni dei lavoratori.
La ricetta per invertire questa tendenza non può limitarsi all’annoso dibattito sul salario minimo, potenzialmente utile a contrastare le retribuzioni più povere o la contrattazione collettiva “pirata”, ma inadatto ad allineare le retribuzioni agli standard degli altri paesi europei.
Sicuramente più efficace sarebbe il definitivo abbattimento del tabù della contrattazione decentrata, capace di adattare le retribuzioni e gli incentivi alla realtà delle singole imprese e dei territori. La possibilità di scambiare un sostanziale incremento dei trattamenti economici (“incrementi di competitività e di salario”) con una maggiore flessibilità, anche – entro limiti predefiniti e per finalità specifiche – in deroga alla contrattazione nazionale e perfino alla legislazione nazionale, è già prevista dall’art. 8 del D. L. 138/2011, che tuttavia, pur trovando una costante e silenziosa applicazione nel tessuto imprenditoriale italiano, meriterebbe, da un lato, di essere “abbracciata” con meno timidezza dalle parti sociali a livello nazionale, e dall’altro lato di essere rafforzata da interventi legislativi che ne incentivino l’applicazione anche rimuovendone le residue incertezze applicative.

A.N.D.E.
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