Il movimento delle donne, in Italia e nei paesi occidentali almeno, è sempre stato attraversato da controversie, anche aspre, sia sul piano teorico sia sul piano dell’azione pratica. Semplificando un po’, negli anni settanta le controversie erano tra chi si ispirava al marxismo e chi era di orientamento liberale, tra chi pensava necessario lavorare (anche) nelle istituzioni e chi invece professava il separatismo radicale, tra femminismo della differenza e femminismo dell’uguaglianza nonostante le differenze. Anche l’entrata dei gruppi delle donne lesbiche è stata all’inizio oggetto di controversie. Oggi ci si divide invece sulla liceità del ricorso alla gestazione per altri e sulla perfetta equiparazione tra donne tali per biologia e donne nate biologicamente maschi, ma che si identificano, appunto, come donne. Non c’è nulla di scandaloso in queste controversie, perché le donne sono diverse tra loro per collocazione sociale, quindi priorità di interessi, culture, religioni, orientamenti politici, appartenenza generazionale e così via. Ciò che ha permesso di vedere ed anche sperimentare il movimento delle donne e l’essere femministe come un fenomeno collettivo non è stata la cancellazione delle differenze più o meno conflittuali, ma l’individuazione di terreni comuni, di ciò che l’essere donna mette in gioco nelle relazioni sociali al di là, e nonostante, le differenze ed anche diseguaglianze che ci sono tra donne e non solo tra donne e uomini. L’esposizione alla violenza, alla discriminazione, alla stereotipizzazione sono dimensioni importanti di questo terreno comune, così come la sistematica sottovalutazione, nelle politiche pubbliche, delle conseguenze che esse hanno per la vita delle donne.
Pur nelle divergenze anche aspre, raramente nella storia del femminismo fino agli anni recenti si è assistito al lancio di anatemi reciproci, a pratiche di esclusione. Non ho mai fatto parte di quelle femministe che teorizzavano che le donne sono per natura più buone degli uomini, o più orientate alla pace. Troppe sono le smentite della storia pubblica e privata. Ma del femminismo e del movimento delle donne, anche quando io stessa me ne sono sentita messa ai margini, ho sempre percepito lo sforzo di lavorare sulle connessioni, sull’inclusione, anche a rischio di semplificazioni o di oscurare non tanto le divergenze quanto le disuguaglianze. E si devono ad alcuni gruppi femministi azioni coraggiose come quello delle donne in nero, un movimento pacifista diventato poi internazionale e presente in varie situazioni di conflitto, nato da un gruppo di donne israeliane a Gerusalemme nel gennaio del 1988, in seguito allo scoppio della prima intifada, per protestare contro l’occupazione israeliana dei territori palestinesi semplicemente imponendo la propria presenza fisica, silenziosa, nello spazio pubblico del conflitto.
Proprio a motivo di questa storia, di questa aspirazione inclusiva del movimento, faccio fatica a comprendere la trasformazione dei dissensi, delle divergenze in anatemi, esclusioni, che riguardino chi, come Joanne Rowling ritiene che non si possano assimilare tout court le donne transessuali alle donne tali anche biologicamente e dalla nascita, o chi ha un atteggiamento possibilista nei confronti della gestazione per altri (o viceversa la condanna senza appello), o chi appartiene ad un’etnia, religione, nazione che è considerata nemica, cancellando così il suo diritto non solo a riconoscersi come donna e femminista, ma anche a far valere, come tale, la propria richiesta di solidarietà. In questo modo non solo si chiude la porta a quel confronto, a quell’apprendimento reciproco, a quella capacità di uscire dalla monodimensionalità del proprio punto di vista e/o posizionamento, sociale che per molte di noi ha costituito una delle dimensioni più importanti del movimento delle donne e del femminismo. Si pongono inaccettabili gerarchie di rilevanza tra vittime di violenza e ingiustizia.
Protestare contro la sistematica uccisione della popolazione di Gaza e l’espulsione forzata di centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro case e dalla terra in cui abitano da secoli non può essere in contrapposizione con la condanna delle violenze dei seguaci Hamas, che nell’attacco del 7 Ottobre hanno portato all’estremo la violenza di genere, gli stupri spesso seguiti da uccisioni, che sono spesso il corollario dei conflitti di guerra. Perché anche nelle guerre, nei conflitti tra fazioni, l’abuso del corpo delle donne fa parte dell’armamentario bellico.

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