I limiti, storici e politici, della propensione ad una verticalizzazione del potere rispetto alla complessità

Nelle ipotesi di premierato in discussione nelle aule parlamentari traspare una forte propensione alla verticalizzazione del potere, nella rassicurante verità che «così comanderà uno solo».
È naturale che la cosa sia venduta in questi termini all’opinione pubblica, sia di maggioranza che di opposizione. Ma si rischia di dimenticare o di sottovalutare il fatto che una società complessa — e quella italiana lo è tanto — non può essere governata da un solo meccanismo decisionale. C’è bisogno, invece, di un apparato di governo e di una classe di governo, cioè di un insieme di personaggi che sappiano capire e gestire le diverse variabili (di contenuto e di procedura) del sistema nella sua complessità. Altrimenti chi accentra il potere si trova nella necessità di farsi un proprio apparato di vertice, con fedeli gerarchi o con fidati oligarchi.
È quanto si riscontra in varie parti del mondo, dalla Russia di Putin a diversi Paesi «a democrazia guidata»; in fondo, vi fu costretto anche lo stesso Mussolini, pur all’apice del suo potere: da una parte moltiplicando gerarchi e gerarchetti di dubbia qualità, dall’altra operando una sotterranea utilizzazione di antichi oligarchi (i nittiani Beneduce e Molinari, uno per i problemi finanziari, e l’altro per l’apparato statistico), anche se in campi che riteneva non essenziali al suo programma di controllo collettivo. Il ricorso ai gerarchi finì in pagine ingloriose; gli andò meglio con il residuo oligarchico dei decenni precedenti
Quel residuo fece poi da scheletro, dal ’45 in poi, alla vita della Repubblica e dei suoi primi governi. È accaduto sia nella ricostruzione interna, affidata in pratica ad eredi legittimi dei vecchi oligarchi (Menichella, Paronetto, Carli, Saraceno); sia nelle grandi scelte internazionali, se è vero che lo schierarsi con l’America fu filtrato da precisi affidamenti oligarchici: con una missione a Washington del ’45 di quattro oligarchi beneduciani (Cuccia, Mattioli, Morelli e Quintieri) presso l’entourage massonico di Roosevelt; e con un quasi contemporaneo «giro americano» di monsignor Montini, forse il più oscuro ma potente oligarca del periodo. Dei movimenti di quest’ultimo naturalmente non ci sono tracce ufficiali, mentre della missione formale fanno fede le memorie dell’ambasciatore Ortona, che ne fu lo sherpa diplomatico.
Se la politica del dopoguerra italiano è stata quindi attenta a scelte e personaggi di stampo oligarchico (sia pure sotto l’ombrello della grande politica degasperiana) si può dire che quella opzione oligarchica ha finito anche per gestire la complessità decisionale di tutta la Prima Repubblica. Basta pensare a quanto siano state importanti figure della burocrazia parlamentare (da Nicola Picella ad Antonio Maccanico), dell’alta burocrazia ministeriale (specie dei Ragionieri Generali, da Carlo Marzano negli anni ’50 ad Andrea Monorchio all’inizio del 2000), della rappresentanza sindacale e corporativa (da Giuseppe Di Vittorio ed Angelo Costa negli anni ’50 e da Bruno Trentin e Vittorio Merloni negli anni 80).
Può piacere o non piacere, ma nell’Italia dal ’45 a oggi hanno contato di più i pochi oligarchi che le centinaia di piccoli gerarchi imposti dalla politica. E la cosa non cambiò con Prodi e Berlusconi, visto che il primo era nato oligarca e il secondo usò Gianni Letta, oligarca autodidatta.
Tutto sembra cambiare con l’onda populista degli ultimi vent’anni e con il conseguente cambiamento di passo nelle decisioni politiche: vige il motto «uno vale uno»; si declama la superiorità della moltitudine; si tende a fare a meno della dimensione tecnica negli apparati di governo; si premiano invece i fedeli, inquadrandoli come gerarchi in improbabili strutture di missione; si ingorgano i ruoli della Pubblica amministrazione con personaggi senza storia e senza competenze. E nel contempo, sul piano dell’opinione pubblica, si esprime un ironico disprezzo per i «migliori», sempre in sospetto di oligarchia.
In fondo, il populismo non ha prodotto nuovo potere reale, ma solo una polifunzione di gerarchi, magari di imprecise competenze e di limitato potere. Si tratta di un’onda culturale e politica che sembra oggi in silenzioso riflusso, e verrà pure il tempo in cui con essa si dovranno fare i conti, con serietà. Occorrerà comunque la attuale propensione alla verticalizzazione personale del potere ed alla riduzione dei meccanismi e dei soggetti di responsabilità, di alta amministrazione, magari trascurando il fatto che non è mai successo che un gerarca diventi automaticamente oligarca: ci vogliono, per l’impresa tempi lunghi e progressiva appartenenza alla rete della necessitata oggettiva poliarchia di una società ad alta frammentazione.

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