13 Dicembre 2024

Il pacifismo secondo le circostanze è quello che dai suoi adepti viene applicato a uno solo dei due belligeranti

Oggi, in Italia, essere pacifista significa tre cose. Il primo significato è quello espresso dall’articolo 11 della nostra Costituzione e che ha riassunto benissimo Maurizio Caprara qualche giorno fa sulle colonne del Corriere. Significa cioè rifiutare per il nostro Paese qualsiasi politica aggressiva di stampo nazionalistico o colonialistico o che altro. Al tempo stesso, e di conseguenza, significa rifiutare l’idea e la prassi che le controversie internazionali possano essere decise a cannonate e dunque, inevitabilmente, a favore di chi può disporre di un maggior numero di cannoni.
In questo senso è indubbio che nel nostro Paese il fronte pacifista, chiamiamolo così, sia amplissimo. Dal ministro degli Esteri Antonio Tajani e della Difesa Guido Crosetto fino alla sinistra più sinistra mi pare non solo di non vedere in giro nessuno che vada predicando la necessità che l’Italia si getti in qualche avventura militare, ma neppure nessuno intenzionato a fare la faccia feroce o mostrare i muscoli nei confronti di chicchessia. Qui da noi insomma siamo tutti o quasi pacifisti.
Ma accanto a questo che ora ho detto esistono altri due tipi di pacifismo: il pacifismo secondo le circostanze e il pacifismo dell’irrealtà. Il pacifismo secondo le circostanze è quello che dai suoi adepti viene applicato a uno solo dei due belligeranti.
Naturalmente a quello che per una qualunque ragione politica o ideologica sta antipatico e al quale perciò si attribuisce sempre la responsabilità della guerra intimandogli perentoriamente di smetterla. Il modello classico di questo pacifismo sono i «partigiani della pace» di antica memoria, l’organizzazione dei Partiti comunisti, quindi anche di quello italiano, che negli anni della guerra fredda in obbedienza agli ordini di Mosca «difendeva la pace» dipingendo gli Stati Uniti come una sorta di aggressore in servizio permanente: militarista, imperialista, desideroso solo di scatenare alla prima occasione una guerra atomica contro l’Unione sovietica. La quale dal canto suo veniva invece dipinta come un Paese per definizione «amante della pace», tutto sani principi e opere di bene.
Con le opportune varianti è il medesimo pacifismo che oggi intima agli ucraini di smetterla di difendersi — e quindi di smetterla di chiederci le armi per farlo. In questo modo infatti quei dissennati non farebbero altro che impedire a Putin di vincere e di diventare così il padrone del loro Paese. È il pacifismo che potremmo definire della resa come la via migliore alla pace. Lo stesso che però sostanzialmente tace se Hamas attacca Israele nel modo che si sa e si guarda bene dal chiedere perfino che almeno vengano restituiti gli ostaggi catturati.
Quello forse più diffuso è però il pacifismo dell’irrealtà. Dell’irrealtà perché, contraddicendo arditamente millenni di storia umana, i suoi adepti sono convinti che la guerra non sia, ahimè, una tragica regola di quella storia, il modo da sempre adoperato dalle più diverse collettività umane e dagli Stati per regolare i propri contrasti quando pensano non solo che tutti gli altri modi per farlo siano inutili ma altresì, com’è ovvio, di poter avere la meglio. No, la guerra non è la regola: è l’eccezione, non può che essere l’eccezione. Dovuta sostanzialmente agli sporchi interessi di pochi (al primo posto i «mercanti d’armi») o alla perfida natura di qualche governante e delle sue idee folli.
In questo modo la guerra esce dalla storia per divenire una frattura di natura puramente criminale nell’ordinato svolgimento delle cose: esattamente come l’omicidio lo è nell’ordinata vita di una comunità. Il che ha la decisiva conseguenza di farla rientrare per ciò stesso, e in quanto tale, nell’ambito del diritto, dei codici e dei tribunali. Non discuto le ragioni storiche (il nazismo, il processo di Norimberga, ecc) e le buone intenzioni che sono all’origine di questo fenomeno, bensì le conseguenze che esso ha avuto sulla mentalità e il sentimento collettivi.
La prima e più ovvia di queste è l’evidente divaricazione — su una questione politica cruciale come la guerra e la pace — tra l’opinione pubblica e la sensibilità culturale dell’Occidente e quelle del resto del mondo. Da parte nostra infatti il ricorso alle armi è sempre considerato una faccenda potenzialmente da codice penale che può spalancare le porte della galera, dall’altra, invece, una più o meno normale dimensione della politica. È evidente il radicale squilibrio che ne deriva nella disposizione psicologica di chi ha le massime responsabilità di governo e deve decidere. Ma la conseguenza forse più importante non è questa. Essa sta nella mentalità che ormai rischia di essere prevalente da noi. Una mentalità dominata da un irenismo tutto compiaciuto per la propria irreprensibilità etica e che alla realtà sostituisce i buoni sentimenti. Un irenismo tragicamente ottimistico, ignaro che per evitare la guerra non basta che noi si sia pacifici perché sarebbe necessario che lo fossero anche tutti gli altri; un pacifismo che mentre l’orizzonte arde dei mille conflitti accesi dappertutto si ostina a immaginare un mondo felicemente demilitarizzato. Che però, stando a quel che si vede in giro, rischia di essere, alla fine, solamente il nostro.

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