Il Paese di Orbán ha imboccato la strada verso una recessione democratica. Questa strategia deve essere contrastata

Il divieto posto da Orbán al Gay Pride di sabato scorso è solo l’ultimo tassello di una lunga serie di picconate che il governo di Budapest ha inferto allo stato di diritto. Il successo della manifestazione (duecentomila partecipanti, secondo gli organizzatori) dimostra però che la battaglia non è ancora persa. Molti ungheresi si oppongono alla svolta illiberale e rivendicano con forza il rispetto delle garanzie democratiche e dei diritti civili. Lo Stato di diritto è il pilastro portante della civiltà giuridica e politica europea. Significa certezza delle leggi, protezione contro l’esercizio arbitrario del potere, trasparenza dei processi decisionali, rispetto dei valori democratici e dei diritti fondamentali, sotto il controllo di una magistratura indipendente.
Nell’ultimo decennio, Orbán ha progressivamente e sistematicamente aggredito ciascuno di questi elementi. La nomina di giudici conniventi da parte dell’esecutivo ha consentito a quest’ultimo di avere mano libera nell’approvazione e nell’applicazione di leggi liberticide e persino nella modifica della Costituzione.
Il progetto di Orbán è chiaro: trasformare l’Ungheria in una democrazia illiberale. Si tratta in realtà di un ossimoro: senza le garanzie liberali non si possono tenere elezioni libere, appunto. Il dissenso è ormai mal tollerato persino in Parlamento. Nei mesi scorsi, un gruppo di deputati contrari all’ennesimo emendamento costituzionale sono stati sospesi dai lavori dell’Assemblea.
L’Ungheria non è l’unico Paese europeo ad aver imboccato un percorso di recessione democratica. Altri Paesi in bilico sono Slovacchia, Bulgaria, Polonia e Romania. Orbán è però andato più avanti degli altri. Per questo è urgente contrastare la sua strategia prima che raggiunga il punto di non ritorno. Gli sforzi vanno concentrati su tre versanti.
Il primo è quello delle idee. Orbán giustifica le proprie mosse in chiave sovranista: il diritto del suo Paese a non subire interferenze esterne e rispettare «la volontà del popolo ungherese». Peccato che, pur avendo vinto la maggioranza dei seggi grazie al sistema maggioritario, la coalizione guidata da Orbán rappresenti solo una minoranza degli aventi diritto al voto (3 milioni su un totale di 8,2). La democrazia liberale poggia sul principio di maggioranza, ma impone anche la tutela delle minoranze.
L’Ungheria è inoltre vincolata dal diritto Ue, che prevale sul diritto nazionale. L’art. 2 del Trattato sull’Unione europea impegna i Paesi membri al rispetto dello Stato di diritto e i suoi valori. La Carta dei diritti fondamentali conferisce diritti soggettivi a tutti i cittadini Ue, compresi gli ungheresi. La Ue ha il dovere di tutelare questi diritti. Se Orbán non è d’accordo con gli impegni sottoscritti all’atto di adesione, nel 2004, ha due sole strade. Modificare i Trattati convincendo tutti gli altri governi, che hanno diritto di veto. Oppure uscire dalla Ue, come ha fatto il Regno Unito.
Il secondo versante di intervento è il sostegno a quelle forze politiche e della società civile che si oppongono al regime. Il principale partito di opposizione è Tisza, guidato da Péter Magyar, che i sondaggi danno oggi in testa rispetto al partito di Orbán, Fidesz. Poi c’è Momentum, il partito più attivo nella mobilitazione delle proteste, insieme al sindaco di Budapest che ha dato via libera al Pride nonostante i divieti. Le associazioni della società civile (comprese quelle della comunità Lgbtq+) contrarie a Orbán sono molto numerose, ma subiscono attacchi sempre più diretti. È in via di approvazione una legge che rafforza l’Ufficio per la Protezione della Sovranità, introdotto nel 2023 per individuare tutte le organizzazioni (inclusi i mezzi di informazione e università) che beneficiano di assistenza straniera, finanziaria e no.
Quali strumenti ha la Ue per contrastare Orbán? Qui arriviamo al terzo versante di intervento. Nell’ultimo decennio, Bruxelles è passata da un atteggiamento di sostanziale tolleranza a azioni di monitoraggio e sorveglianza. Successivamente sono iniziate le procedure di infrazione e infine le sanzioni finanziarie. I fondi comunitari sono stati congelati (l’Ungheria è un beneficiario netto del bilancio Ue). Il Trattato prevede una ulteriore e drastica misura: la sospensione del diritto di voto per il Paese inadempiente. La procedura è tuttavia estremamente complessa e richiede l’unanimità (escluso il Paese interessato).
Il congelamento dei fondi si è rivelato abbastanza efficace: in qualche caso Orbán ha dovuto fare marcia indietro per non perdere i trasferimenti. È diffusa l’opinione che questo tipo di sanzione vada resa più severa: sottrae infatti cospicue risorse economiche alla società ungherese e conferisce risorse politiche all’opposizione, che può così screditare il governo per il danno subito.
Il tempo stringe, le prossime elezioni politiche si terranno nella primavera del 2026. Salvare la democrazia liberale a Budapest è cruciale non solo per confermare che la Ue è davvero una Unione di valori condivisi, ma anche per controbilanciare le spinte autoritarie che si manifestano con sempre maggior virulenza in giro per il mondo, Stati Uniti compresi.

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