Tutte le posizioni sono legittime. Ma la premier ha scelto la via di fuga. Bisogna però intervenire su uno strumento in crisi
Immaginiamo per un attimo che gli italiani decidano in massa di seguire l’indicazione della loro presidente del Consiglio. Che quindi domenica si mettano in fila ai seggi, salutino presidenti e scrutatori, forniscano il documento d’identità e poi voltino le spalle rifiutando le cinque schede referendarie. Sarebbe serio? Sembreremmo un popolo vagamente schizofrenico. Basterebbe insomma prendere in parola Giorgia Meloni per capire che stavolta non va presa in parola. E questo non è mai un buon risultato per un primo ministro.
Naturalmente l’appello all’astensione, checché ne dicano i promotori dei referendum, è perfettamente legittimo. La Costituzione definisce sì il voto un «dovere civico», ma la legge non sanziona chi non vota: è dunque un «dovere», ma non un «obbligo». Inoltre, astenersi può anche essere un modo di esprimere il proprio orientamento. È infatti la Costituzione stessa a fissare un quorum elevato affinché la consultazione sia valida (il 50% più uno degli aventi diritto); con ciò accettando implicitamente che ci si possa opporre ai quesiti referendari anche non recandosi alle urne.La «ratio» di questa norma è peraltro molto democratica: i «padri fondatori», cui di solito si riconosce il merito di aver scritto «la Costituzione più bella del mondo», erano infatti consapevoli del rischio che una minoranza di cittadini potesse cancellare una legge votata dalla maggioranza del Parlamento, che rappresenta tutti gli italiani. E così lo impedirono.
D’altra parte, in questa stessa tornata referendaria anche numerosi dirigenti del Pd hanno annunciato che rifiuteranno al seggio le schede dei quesiti che non condividono. E in passato hanno fatto appello all’astensione su singoli referendum icone della sinistra come Sergio Cofferati o premier in carica come Matteo Renzi.
Non è dunque questo il problema. Il problema è che da ormai trent’anni i cittadini, alcuni consapevolmente e molti per ignavia, si rifiutano di decidere con un sì o con un no su materie complesse e quesiti multipli, spesso poco comprensibili (con l’unica rilevante eccezione del no al nucleare e del sì all’acqua pubblica, quorum raggiunto nel 2011).
Gli astensionisti possono vantare anche qualche ragione. Per esempio: nel caso dei tre referendum sul Jobs Act di domenica prossima, a parte la stranezza che fu il Pd a varare quella legge e ora è il Pd a volerla abrogare, è dubbio che sia saggio tornare a norme del mercato del lavoro di un tempo che non c’è più. Oggi mancano i lavoratori più che le offerte di lavoro, e i rischi di licenziamenti arbitrari da sanare con l’obbligo del reintegro si sono di conseguenza molto ridotti. Per questo cala la disoccupazione e anche la percentuale di contratti a tempo determinato (dal 17% al 13% in tre anni): perché le imprese tendono piuttosto a trattenere i loro dipendenti. I licenziamenti dei cosiddetti «precari» sono diminuiti di un quarto rispetto a prima del Jobs Act.
Allo stesso tempo, paradossalmente, tornare a una norma del passato sul numero di anni necessari per chiedere la cittadinanza può risultare invece una proposta proiettata nel futuro. Il limite dei cinque anni che uno dei referendum vuole reintrodurre al posto dei dieci attuali (diventano poi anche tredici per i ritardi burocratici nella concessione), è infatti esistito in Italia per ottant’anni, perfino durante il fascismo; ma è oggi la soluzione più diffusa in Europa per facilitare l’integrazione degli stranieri. I quali comunque devono farne richiesta, conoscere la nostra lingua, pagare le tasse, dimostrare un reddito minimo e una fedina penale pulita.
Questi giudizi sui diversi quesiti sono ovviamente opinioni di chi scrive, dunque opinabili per definizione. Ma dimostrano che si possono trovare buone e cattive ragioni in ciascuno dei referendum. Non a caso anche l’opposizione è divisa tra chi darà un solo sì, chi due, chi quattro e chi cinque.
Nella sua funzione istituzionale, la premier Meloni avrebbe perciò dovuto scegliere una di queste due strade. O tenersi completamente fuori dalla battaglia referendaria, che tra l’altro non riguarda il governo, e lasciare al libero gioco democratico di determinarne il risultato. Oppure, vestendo i panni del leader politico, intervenire per indirizzare il comportamento degli elettori, anche a favore dell’astensione, ma argomentando però su ogni singola materia perché è favorevole o contraria; per esempio difendendo le regole sul mercato del lavoro che hanno favorito l’occupazione, come ha notato Ferruccio de Bortoli. In questo modo avrebbe contribuito al dibattito democratico, e così indirettamente all’affluenza.
Optando per un «ci vado ma non voto», Giorgia Meloni evita certo di ripetere il clamoroso errore politico di Bettino Craxi, che invitò gli elettori ad andare al mare nel 1991, e invece quelli andarono alle urne. Ma viene anche meno al precetto evangelico che richiede sincerità e coerenza: «Il vostro dire sia sì sì, no no, il di più è del maligno».
Ci sarebbe poi una terza via che maggioranza e opposizione potrebbero seguire insieme per riparare alla crisi di questo importante strumento di democrazia diretta. La facilità con cui oggi si raccolgono le firme online spinge infatti a usarli per campagne di mobilitazione politica a basso costo, anche se destinate fin dal principio a non fare il quorum.Il rimedio sarebbe alzare il numero delle firme e abbassare il quorum. Una proposta esiste da tempo: fissarlo alla metà più uno dei votanti alle precedenti elezioni politiche, sterilizzando così l’astensionismo da apatia e ridando credibilità alla competizione.
Ma chi vuole davvero salvarli i referendum?