
Dalle indiscrezioni fin qui trapelate circa le nuove regole, allo studio non sembra proprio che vi sia da parte di nessuno l’intenzione di operare una vera svolta nell’unica direzione in cui i cittadini decidono da chi vogliono essere rappresentati: e cioè il collegio uninominale maggioritario a turno unico
Nell’indifferenza dell’opinione pubblica i vertici dell’intero schieramento parlamentare stanno preparando una nuova legge elettorale. Con il sistema elettorale attuale, come si sa, sono i vertici dei partiti a stabilire i candidati nei collegi uninominali maggioritari — candidati che possono essere anche di coalizione, quindi ancora di più diviene necessario l’accordo tra i partiti — ; e sono sempre i suddetti vertici dei partiti a stabilire l’ordine (da parte dell’elettore immutabile) con cui ciascun candidato è inserito nelle liste proporzionali, e dal quale dipende la sua possibilità di essere o no eletto. Ora, dalle indiscrezioni fin qui trapelate circa le nuove regole, allo studio non sembra proprio che vi sia da parte di nessuno l’intenzione di operare una vera svolta nell’unica direzione in cui i cittadini decidono da chi vogliono essere rappresentati: e cioè il collegio uninominale maggioritario a turno unico.
Ancora una volta, insomma, varrà quella che sembra la regola prima dei partiti italiani: i deputati e i senatori da eleggere li decidiamo noi, non devono assolutamente eleggerli i cittadini. Dove con quel noi s’intende le segreterie dei partiti medesimi, o per essere più precisi, ormai quasi sempre i loro capi e basta.
Come ho detto è una vecchia storia. All’epoca della Prima Repubblica i partiti, però, almeno esistevano davvero: in quanto organizzazioni reali e in quanto realmente presenti sul territorio. Sicché le candidature al Parlamento, pur se decise dal centro, non potevano però non tener conto degli orientamenti della base locale. Oggi, invece, scomparsi virtualmente quasi dappertutto i partiti — o divenuti emanazioni di cupe cricche oligarchiche come in Puglia o di autentici capataz come in Campania — la decisione di candidare chi e dove, e quindi in pratica la decisione di chi fare eleggere, è nelle mani unicamente dei vertici.
Non ci vuole molto a capire che in questo modo il meccanismo della rappresentanza, cuore del regime democratico parlamentare, principio decisivo della sua identità storica e sua suprema giustificazione etico-politica, viene brutalmente manipolato e di fatto vanificato. Se io elettore ho solo la possibilità di votare il nome di una persona scelta da altri, a me sconosciuta e presente in una lista preconfezionata da un centro lontano, in che senso si potrà mai dire che costui mi «rappresenta»? Non ha forse bisogno il concetto di rappresentanza, non essendo insito nello stesso termine, di una premessa diciamo così fiduciaria che solo la conoscenza personale giustifica? Si può parlare ancora di rappresentanza se tale conoscenza manca? Chi di noi si farebbe mai rappresentare per qualsiasi faccenda, anche la meno importante, da uno sconosciuto?
D’altra parte, che legame potrà mai avere con quelli che in teoria dovrebbero essere i suoi rappresentati un parlamentare eletto a questo modo, da coloro che per lui sono degli sconosciuti? Fatalmente egli sarà un politico senza radici in alcuna realtà vera, in alcuna comunità concreta con la sua storia e i suoi bisogni, le sue paure e le sue speranze. Sarà un autentico rappresentante del nulla. Solo di chi comanda nel suo partito, supino ai suoi ordini. Perché in realtà unicamente a questi serve un meccanismo siffatto: come premio per i propri fedelissimi o come arma di minaccia o di ricatto verso i propri veri o potenziali avversari interni.
Questo vero e proprio tradimento della democrazia parlamentare è una delle cause principali della disaffezione pubblica e al tempo stesso dell’inefficienza che stanno portando tale regime alla rovina. Sono almeno due, infatti, le conseguenze funeste di una tale spersonalizzazione della rappresentanza elettorale.
La prima consiste nel fatto che in tal modo si ha inevitabilmente un Parlamento di ubbidienti. Fare il rappresentante del popolo significherà in pratica una triste routine di voti e di interventi alle Camere e fuori, ripetendo a pappagallo i desiderata della segreteria del proprio partito per guadagnarsene, o conservarsene, il favore. A loro volta, la vita dell’istituzione parlamentare e la vita pubblica in generale si ridurranno inevitabilmente a una routine priva di libertà e d’intelligenza: in entrambe non ci sarà alcun posto per approfondimenti personali, per critiche originali, per proposte e pensieri nuovi. La politica diverrà un bla bla scontato all’insegna del sempre eguale, la ricchezza della personalità scomparirà dalla dimensione pubblica.
E naturalmente — seconda conseguenza — la classe politico-parlamentare sarà mediamente di una qualità sempre peggiore, con gli attori di seconda fila ma spesso anche di prima fila che, come accade oggi, assomiglieranno sempre più spesso a dei ventriloqui a comando. E a propria volta sempre peggiore risulterà inevitabilmente anche la qualità della classe di governo tratta dalle loro fila: ministri incerti e subalterni alle proprie amministrazioni, perlopiù occupati nei propri personali interessi di bottega, senza idee o, se ne hanno, perlopiù incapaci di realizzarle.
Tanto può l’insieme delle pessime leggi elettorali che da decenni ci governano. Ma se domani Giorgia Meloni decidesse, dopo averne spiegato le ragioni agli italiani, di imboccare una strada diversa — come fu ad esempio quella tracciata nel 1993 dall’allora deputato Sergio Mattarella — mostrerebbe una volontà di rinnovamento e un’audacia politica che, sono sicuro, il Paese non mancherebbe di premiare.