Una lezione per l’Europa? Pechino raccoglie i frutti di politiche industriali che hanno rafforzato per anni le filiere tecnologiche

C’è una lezione cinese che l’Unione europea dovrebbe imparare? La trattativa sui dazi fra Donald Trump e Xi Jinping sembra procedere in modo più equilibrato. I media di Pechino già cantano vittoria, celebrano un successo del regime, rispetto al punto di partenza (nel Liberation Day il 2 aprile Trump aveva annunciato dazi del 145%). Prima di entrare nel merito, e capire se la Cina sappia farsi valere meglio di Ursula von der Leyen, è utile una deviazione.

Un passaggio a Shanghai, dove si è appena tenuta una fiera internazionale sull’intelligenza artificiale (A.I., per usare l’acronimo inglese). L’evento è servito alle autorità come una vetrina per promuovere l’A.I. «made in China» e offrirla al mondo intero in alternativa ai concorrenti americani. A Shanghai era in mostra un ecosistema tecnologico cinese sempre più avanzato, quasi autosufficiente, che punta verso un’autonomia dalle forniture americane (per ora sempre essenziali) o anche taiwanesi, giapponesi, sudcoreane. Ai margini di quella manifestazione si è anche saputo che Xi Jinping spinge le scuole elementari e medie di Pechino a insegnare l’A.I. fin dalla più tenera infanzia. Che c’entra questo coi dazi? Molto.

La partita dei dazi e altre forme di protezionismo, è parte di un arsenale più ampio, la vera posta in gioco è il dominio nelle tecnologie strategiche. Da questa guerra geoeconomica l’Europa si è chiamata fuori. Sull’A.I. l’atteggiamento prevalente sul Vecchio Continente è un misto di paura, allarmismo, illusione di «scrivere le regole e fare da arbitro» (delegando a politici e burocrati compiti per i quali sono impreparati), infine la velleità di vendicarsi tassando i Big Tech altrui. L’Europa ha eccellenti università e miriadi di talenti, troppo spesso destinati all’esodo verso terre più intraprendenti. La partita dei dazi non si capisce senza questo sfondo.

Chiusa, per adesso, in un mare di recriminazioni la trattativa Usa-UE sul commercio, torna in primo piano quella fra l’Amministrazione Trump e il governo cinese. Dopo gli incontri di Ginevra le due delegazioni si sono spostate a Stoccolma. L’ottimismo ufficiale regna. Sono sospesi sia i superdazi annunciati da Trump sia le rappresaglie cinesi. A differenza di quanto accaduto con la Commissione UE, tra Washington e Pechino si è capito che nessuno dei due è in grado di piegare l’altro con un colpo fatale. O forse sarebbe più esatto dire: ciascuno dei due ha dimostrato di poter assestare un colpo che l’altro non vuole subire, sicché siamo al pareggio.

La Cina ha fatto assaggiare agli americani il danno tremendo che sarebbe un embargo sulle forniture di terre rare e minerali essenziali. L’Amministrazione Trump ha dimostrato di poter infliggere danni altrettanto gravi con l’embargo su certe categorie di microchip (i più avanzati che servono all’A.I. come quelli di Nvidia), le parti di ricambio dei jet passeggeri, e altre tecnologie. Ciascuno ha quindi ritirato o disarmato il proprio «bazooka» a condizione che l’altro faccia altrettanto. È una tregua, non una pace duratura. Ciascuno si riserva di riaprire le ostilità quando avrà conquistato una sufficiente autonomia e si sarà quindi affrancato dal ricatto altrui. I cinesi stanno lavorando alacremente per costruirsi un’autarchia nei semiconduttori; gli americani costruiscono filiere mondiali alternative nell’approvvigionamento di terre rare e minerali strategici in modo da bypassare la Cina in futuro (vedi la pace Congo-Ruanda siglata alla Casa Bianca). Ma quello è il futuro. Per adesso le ragioni della tregua sembrano solide.

Quello che si potrebbe definire un pareggio, viene però presentato dai vertici cinesi come una loro vittoria. Pechino raccoglie i frutti di politiche industriali che hanno sostenuto con risorse ingenti — e metodi anche illegali come lo spionaggio e il furto di proprietà intellettuale — i propri «campioni nazionali»; hanno rafforzato le filiere tecnologiche perseverando per decenni;hanno alimentato il rimpatrio dei cervelli emigrati offrendogli stipendi alti e posizioni di potere. Il regime comunista sa anche imporre alla propria popolazione sacrifici pesanti — deflazione, consumi depressi, una disoccupazione giovanile e intellettuale ben oltre il 20% ufficiale — pur di pilotare la transizione verso un modello meno dipendente dalle esportazioni sul mercato Usa.

La lezione cinese non è completa se non si aggiunge il versante geopolitico. Il manuale di politica industriale applicato da Xi Jinping non è originale, i comunisti cinesi lo hanno copiato dal Giappone degli anni 50-80. Ma Tokyo, come Berlino e Roma, deve la propria sicurezza alla difesa americana. Fin dai tempi di Richard Nixon e Ronald Reagan, quando l’America ha attraversato stagioni protezioniste, il suo impegno militare ha giocato un ruolo nel costringere gli alleati a scendere a patti. La Cina è una rivale strategica e una potenziale avversaria militare. Prima di bocciare la presunta arrendevolezza di Ursula von der Leyen o del suo connazionale Friederich Merz, occorre vedere il quadro completo delle relazioni: quelle sino-americano sono sotto il segno dell’antagonismo a tutto campo.

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