Il vero snodo è tra il ritenere che i problemi dell’Italia — a cominciare dall’immigrazione e dalla sostenibilità del debito pubblico — si risolvano più facilmente facendo da soli, o collaborando con i partner europei e con le istituzioni di Bruxelles

Tra i nuovi partiti che si affacciano al Parlamento europeo spicca, con 800 mila voti e tre deputati, un movimento spagnolo. Simbolo: la maschera del vendicatore anonimo, resa celebre dal film V per Vendetta e dalla serie «La casa di carta». Nome: «Se acabò la fiesta», la festa è finita. È un movimento iperliberista, alla Milei, il presidente argentino con la motosega. Il capo, Alvise Pérez, è ovviamente un influencer. Ma la campana che suona vale per tutti noi.
La festa europeista è finita, e non da ora. Due anni fa, i quattro grandi Paesi dell’Europa occidentale erano guidati da un Emmanuel Macron appena rieletto con ampio margine, da un Olaf Scholz che si era presentato come «la nuova Cancelliera», insomma l’erede di Angela Merkel, dal socialista Pedro Sánchez non ancora indebolito e dal salvatore dell’euro, Mario Draghi: tutti e quattro pienamente solidali con Zelensky e la causa dell’Ucraina e della Nato.
Oggi Macron ha sciolto il Parlamento per una sfida «o la va o la spacca». Scholz ha visto l’Spd — il partito più antico d’Europa, fondato nel 1863, sopravvissuto a due guerre mondali e al nazismo, portato al governo da figure di immenso prestigio come Willy Brandt e Helmut Schmidt — superato e umiliato dagli anti-antinazisti dell’Alternativa per la Germania. Sánchez ha perso terreno rispetto alle elezioni politiche, quando è riuscito a riabborracciare un governo con un solo voto di maggioranza. E l’unico partito di opposizione al governo Draghi sfiora il 30 per cento.
Diciamolo con franchezza: il voto dell’8 e 9 giugno è stata l’ennesima prova di forza della destra italiana. Giorgia Meloni non ha fatto una campagna da destra moderata, conservatrice, europea. Non ha rinunciato a un’oncia di se stessa.Ha stretto un’alleanza con Eric Zemmour, uno che sta a destra di Marine Le Pen, e ha flirtato con la Le Pen stessa. Lo scandalo dell’ultima ora — il portavoce del cognato ministro inneggiava ai terroristi neri che negli anni 70 e 80 mettevano le bombe sui treni e ammazzavano i poliziotti — non le ha tolto un voto. E alla sua destra Matteo Salvini salva la ghirba grazie al generale Vannacci, che ottiene mezzo milione di preferenze non nonostante, ma grazie alle sue sparate. Mentre, solidamente ancorata nel centrodestra, Forza Italia cresce. Il progetto di Renzi e Calenda è fallito, oltre che per le rivalità personali, perché presupponeva la fine di Forza Italia; che non c’è. A sinistra Elly Schlein ottiene un buon risultato. Ma se si fosse votato per le politiche, la vittoria della destra sarebbe stata ancora più netta: perché i consensi dei tre partiti della maggioranza si sommano; quelli dell’opposizione no.
Ciò non toglie che ora Giorgia Meloni sia a un bivio. Che non è solo tra sostenere Ursula von der Leyen, unendosi alla maggioranza che governerà l’Europa ma spaccando il gruppo dei Conservatori di cui è presidente, oppure mantenere l’unità del gruppo ma schierando il governo italiano all’opposizione. Il vero bivio è tra il ritenere che i problemi dell’Italia — a cominciare dall’immigrazione e dalla sostenibilità del debito pubblico — si risolvano più facilmente facendo da soli, o collaborando con i partner europei e con le istituzioni di Bruxelles.
Marine Le Pen questo dilemma l’ha risolto da tempo: per lei la legislazione nazionale deve prevalere su quella comunitaria; il che implica la distruzione dell’Europa come l’abbiamo conosciuta. Molto quindi dipende dalla partita che si gioca oltralpe.
Vista dall’alto di un aereo, la Francia appare verde, pulita, ordinata, dolce: il giardino di Dio; «heureux comme Dieu en France», felice come Dio in Francia, si diceva ai tempi in cui Charles Trenet cantava «douce France». Ma a girare nei villaggi cari agli chansonniers, fuori dalle grandi città e dalle rotte turistiche, la Francia è un Paese spaventosamente impoverito, slabbrato sul piano edilizio e sociale: è tutto un cartello «a vendre» o «a louer», vendesi, affittasi; si possono girare dieci paesi di fila in cui lo storico bistrot ha chiuso, prima di arrivare a Colombey-les-deux-eglises, dove il bistrot è ancora aperto per gli ultimi visitatori memori del generale De Gaulle, che qui visse e qui è sepolto.
Ecco, la Francia Macron è abituata a vederla dall’alto. Fatica a capire o anche solo a vedere la Francia profonda, sorvolata e sconfitta dalla globalizzazione, che intende affidarsi a una destra populista che all’evidenza non è la soluzione. Per questo Macron ha giocato la carta delle elezioni anticipate, che non mettono in gioco il suo posto all’Eliseo, al sicuro per altri tre anni, ma la maggioranza in Parlamento. Pensa di non avere nulla da perdere. Se vincerà il fronte repubblicano che spera di costruire — ha già annunciato che non presenterà candidati contro gli uscenti dei Repubblicani, vale a dire la destra neogollista ed europeista —, tanto meglio. Se invece vincerà il partito di casa Le Pen, i francesi sperimenteranno cosa vuol dire l’estrema destra al governo, e faranno in tempo a cambiare idea alle presidenziali del 2027. Questo almeno è il calcolo di Macron.
Previsione: al ballottaggio del 7 luglio Marine Le Pen non avrà la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale. Avrà forse una maggioranza relativa, che le porrebbe una sfida di governo molto difficile. Anche perché il suo candidato primo ministro, Jordan Bardella, è molto popolare ma anche molto giovane (28 anni), e molto impreparato. Da italiani potremmo esserne orgogliosi: suo padre Olivier è di origini italiane, sua madre Luisa è proprio italiana; non sarebbe una novità, da Napoleone a Platini, da Caterina de’ Medici a Carla Bruni, da Mazzarino a Yves Montand che si chiamava in realtà Ivo Livi, da Gambetta a Pierre Cardin che si chiamava Pietro Cardin ed era di Treviso, la storia di Francia è piena di nostri compatrioti. Ma per noi italiani Bardella potrebbe rivelarsi un falso amico. Perché l’Europa ci serve, se non altro a garantire il nostro crescente debito pubblico; come del resto serve alla Francia.
Nel 1988, appena rieletto senza patemi, François Mitterrand scelse come primo ministro il suo peggiore nemico interno: Michel Rocard. Ai fedelissimi, increduli, spiegò: «I francesi lo vogliono, e i francesi lo avranno». Rocard durò meno di tre anni, e sparì. Anche Mitterrand si sentì poco bene. Ma era Mitterrand, e fece in tempo a vincere il referendum sull’euro, che Kohl aveva accettato dicendo: «Non so se alla Germania convenga davvero. So che avevo un fratello, si chiamava Walter, ed è morto in guerra».
Se era una festa, non ce n’eravamo accorti. Ma forse la rimpiangeremo.

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