10 Novembre 2025

Non c’è dubbio: gli eventi di questi ultimi anni, dei nostri giorni, potrebbero indurre a visioni pessimistiche

Il diritto è finito, morto, superato: lo si ripete da ogni parte, lo pensano in tanti. È lo spirito del tempo: pensare che non esista legge che tenga, che la forza e la violenza siano una necessità, accusare chi pensa il contrario di essere solo un’anima candida – come a dire: è la realtà, bellezza, è inutile sognare. E quindi concepirlo, il diritto, solo in senso autoritario: come se il diritto non fosse a sua volta altro che forza e violenza, come se questa fosse la sua stessa natura – intimidatoria, se non addirittura persecutoria.
Non c’è dubbio: gli eventi di questi ultimi anni, dei nostri giorni, potrebbero indurre a visioni di questo genere.
Dalla guerra in Ucraina a Gaza, e non solo: non è forse vero che il diritto ne sta uscendo sempre più svilito, quasi umiliato? La giustizia internazionale, in particolare: non è forse vero che tutto ciò che sta accadendo contribuisce drammaticamente a delegittimarla, a farla sentire «sotto attacco» (per rimandare al sottotitolo di un libro di Marcello Flores ed Emanuela Fronza, «Caos», in uscita da Laterza)?
Ma il diritto non è morto: se lo è, lo è solo nell’immaginazione e forse nei desideri, per quanto magari inconfessati, di chi sostiene che lo sia. Secondo il tipico meccanismo della profezia che si autoavvera: spacciare per realtà, per dato incontestabile, la realtà che viene affermata come tale, e ridurre le norme ai fatti, confondendo le une con gli altri.
Il punto allora è trovare dei dispositivi di resistenza contro questa «fallacia cinica», come l’ha definita in un’occasione Roberta De Monticelli: e perché non pensare ad esempio anche alla poesia? Potrebbero valere, anche in relazione al diritto, quelli che Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, nel loro recente «Macchine celibi» (il Mulino), propongono come dispositivi di resistenza più generali, raccogliendo un’indicazione proveniente già da papa Francesco, contro ogni deriva nichilistica: e cioè appunto la poesia e l’agire poetico. Come fonti di uno sguardo nuovo, «capace di andare al di là dei concetti che riconducono l’ignoto al noto, o che afferrano la realtà per dominarla»; come strumenti di costruzione di una realtà diversa rispetto a quella che ci viene fatto credere sia l’unica immaginabile.
Perché non pensare, dunque, alla parola poetica come possibile paradigma anche della giustizia? Nella prospettiva di un diritto che, fedele a sé stesso, non rinunci alla propria tensione etica, valoriale, contenutistica e – perché no? – perfino sentimentale.

A.N.D.E.
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