13 Dicembre 2024

Il voto in Sardegna: il centrodestra è apparso come frastornato: una sorta di corsa al logoramento che non fa bene nè allo schieramento nè all’Italia

La bellezza della scelta. O di qua o di là. Semplice. Due campi, due facce, due progetti: l’elettore legge, ascolta, si informa. Decide. Ogni volta che il bipolarismo sembra al tramonto, riassapora un’alba nuova. Gli sfidanti principali della Sardegna, messi assieme, hanno superato il 90 per cento dei voti: un duello vero, intenso, combattuto, con i consensi «personali» che sono diventati determinanti. Una bella prova di democrazia: si può dire, stavolta, senza retorica. Al punto che Paolo Truzzu è stato più brillante nella sconfitta che nella campagna elettorale: si è preso la colpa e ha fatto i complimenti alla vincitrice. Il popolo è sovrano e non c’è bisogno che i sovranisti lo ripetano tutti i giorni. Esisteva un tempo «il fattore K». Per i ragazzi è come parlare delle Crociate o di Nino Bixio: altri mondi. La formula (geniale) fu inventata da Alberto Ronchey in un editoriale del Corriere della Sera, 30 marzo 1979. Poiché il Partito comunista non poteva governare, anche per motivi internazionali, toccava sempre alle stesse forze politiche.
Poi è caduto il Muro ed è arrivata pure Mani pulite: addio Pci e Dc, addio tutti, avanti con Berlusconi e il bipolarismo. Con molti difetti, tanti ostacoli, qualche intoppo, il sistema regge da più di 30 anni, a livello locale e nazionale: due schieramenti, un vincitore e uno sconfitto. L’alternanza, il valore dell’alternanza, sono dentro di noi: basta un voto regionale e si vede che «il regime» non c’è. Il laboratorio Italia resta vivo e imprevedibile: per fortuna. È sempre una questione di offerta politica, semplicemente di offerta politica: in Sardegna i leader del centrosinistra hanno presentato una coalizione vera, un progetto sensato e la candidata giusta. Evento così raro che si sono sorpresi anche loro. Alessandra Todde ha personalità e curriculum, poco a che vedere con la prima (eccentrica, diciamo eccentrica) generazione dei Cinque Stelle.
Ma l’elogio del bipolarismo, che è il punto primo, porta con sé gli altri due temi: il secondo è lo schieramento, il terzo è la classe dirigente. È il motivo per cui la Sardegna non è uno scherzo del destino, ma un passaggio politico. L’idea che esista un «vento nazionale» pronto a soffiare allo stesso modo e in ogni luogo, idea già coltivata da Matteo Renzi e Matteo Salvini, è accademia pura. L’Italia politica è come quella geografica: le Dolomiti e il mare, i laghi e le vallate, le isole e le colline. Giorgia Meloni ha esportato un modello come se fosse universale: il suo volto, il suo palco, il suo candidato. Ma l’allenatore parte dai giocatori e dal campo, non dalla teoria. La Sardegna è la Sardegna. E con una telefonata in più si poteva capire che i cagliaritani non erano entusiasti del proprio sindaco così come la regione non impazziva per il governatore uscente.
Il centrodestra, nelle ultime settimane, è apparso frastornato. Una corsa al logoramento che non fa bene né alla maggioranza né all’Italia, un traguardo (le elezioni europee) che sembra la resa dei conti, un’attenzione esasperata al rapporto con associazioni, gruppi, categorie, una predilezione verso le nomine «ad alta fedeltà» più che «per alto merito». Che lo facesse, a suo tempo, anche la sinistra non è un’attenuante ma un’aggravante. È come se la «rincorsa» prevalesse sul «governo», è come se il punto non fosse concentrarsi (su centinaia di fronti aperti nel Paese) ma marcarsi a vicenda sul mercato del consenso. Un po’ più a destra, un po’ più al centro, avanti, indietro. Neppure sul perfetto richiamo di Mattarella al Viminale, a proposito delle bastonate, si è trovata una voce univoca. Eppure era semplice. La destra sa bene che il ragazzo che manifesta rappresenta se stesso e il poliziotto che è in piazza rappresenta lo Stato, la Repubblica italiana. Non è uno scontro tra adolescenti. Ma tra un giovane, esagitato o meno, e un agente in divisa che porta materialmente il manganello e idealmente la Costituzione. La maggioranza ha l’occasione per svegliarsi. Uscendo dai veti (e dai veleni) che la stanno fiaccando. La Sardegna è il classico allarme che suona. Poi, certo, il centrodestra ha una solidità antica, mentre l’alleanza Pd-Cinque Stelle è un’incognita e potrebbe già inciampare quando il candidato sarà (sarà?) un democratico invece che un altro nome del Movimento. La festa notturna di Schlein e Conte, tra abbracci, brindisi e canti sardi, è apparsa più come la gioia per la vittoria a sorpresa che come il passo certo verso il nuovo progetto politico. Intanto hanno evitato il karaoke, è già qualcosa.
I candidati, il terzo punto. Per dare un senso al bipolarismo e alla coalizione serve la classe dirigente. Anche fuori dal proprio mondo. «Qui tocca a me» non è solo un concetto vecchio: è la ricerca dell’autogol. Le regioni e le città hanno la loro storia e le loro gelosie. È come se a Milano qualcuno facesse piovere dall’alto un professionista di partito, dopo che gli ultimi sindaci sono stati Gabriele Albertini, Letizia Moratti, Giuliano Pisapia e Beppe Sala ora in carica, due di centrodestra e due di centrosinistra, nessun politico di nascita. Quando Berlusconi indicò Albertini, nel ’97, spiegò che aveva «la nebbia nei polmoni». Un po’ faceva ridere e un po’ voleva dire che l’aveva cercato in città per la città. Se pensiamo agli ultimi candidati del centrodestra per Roma e Milano, si capisce che il Cavaliere aveva molti difetti e anche qualche merito.

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