Al cospetto di un quadro fosco, ci sono però elementi che possono ancora far sperare che l’esito drammatico dell’intera vicenda non sia del tutto scontato. Prima di tutto gli iraniani hanno continuato a trattare

Il doppio attacco — israeliano prima, americano poi — agli impianti nucleari iraniani di Natanz, Isfahan e ieri notte Fordow, costituisce un’aperta violazione della legalità internazionale e conduce il mondo intero sull’orlo di una guerra mondiale. Tanto più che i bombardamenti di Tel Aviv non si sono limitati ai luoghi in cui si arricchisce uranio ma sono stati estesi a basi militari (vere o supposte), rampe di missili, singoli leader dei pasdaran, scienziati.
Le bombe dell’Idf hanno causato morti (per ora relativamente limitate) tra i civili. I missili lanciati per reazione da Teheran hanno in parte trovato varchi nel sistema di difesa israeliano Iron Dome provocando danni fino a ieri inimmaginabili, anch’essi fortunatamente contenuti. La chiusura dello stretto di Hormuz potrebbe aggiungere catastrofe a catastrofe, solo apparentemente di esclusivo rilievo economico. Senza contare le scandalose sofferenze che continuano ad essere inflitte ai palestinesi di Gaza e dei territori occupati. Sofferenze riconducibili al pugno di ferro di Benjamin Netanyahu (anche se, forse, non soltanto a quello visto che un buon numero di ostaggi, vivi o morti, è ancora nelle mani dei miliziani di Hamas).
Al cospetto di un quadro così fosco, ci sono però elementi che possono ancora far sperare che l’esito drammatico dell’intera vicenda non sia del tutto scontato. Prima di tutto il fatto che in questi giorni gli iraniani hanno continuato a trattare (e si è trattato di una trattativa seria, non formale, ancorché infruttuosa). In secondo luogo, il fatto che in questi colloqui siano stati coinvolti i principali Paesi europei che poi, nell’ora della verità, hanno tenuto il punto. E cioè che all’Iran, Paese che dal 1979 dichiara di voler distruggere quella che definisce l’«entità sionista» (cioè Israele), non può essere consentito di dotarsi dell’arma atomica. Così come non lo si potrebbe consentire alla Francia se dichiarasse non occasionalmente di voler gettare a mare la Spagna.
Può, l’Iran, come stabilito dagli accordi Onu del 2015, dotarsi di impianti nucleari «pacifici» ma come ormai tutti sanno in quel caso l’arricchimento dell’uranio non deve superare il 4 o 5%. Ed è sufficiente consentire regolari ispezioni perché il mondo sappia se ha violato o meno quel patto. Nel caso lo abbia violato, dovrebbe essere sanzionato. Anche militarmente. Il resto della storia — che nel 2018 Trump ruppe quell’intesa, che l’Iran ne approfittò per riprendere la pratica degli arricchimenti eccetera eccetera — a questo punto non conta. Sarebbe sufficiente riprendere in mano quei patti di dieci anni fa, aprire le porte agli ispettori e tutto potrebbe chiudersi nel giro di poche ore senza vincitori né vinti.
Ma sappiamo bene che la partita è più ampia e le decisioni definitive spettano oltre che a Israele, all’Iran e agli Stati Uniti, anche alla Russia e alla Cina. Saranno questi due Paesi che hanno imprudentemente sottovalutato le capacità di sostanziale ricompattamento tra Israele, Stati Uniti, Europa e mondo arabo sunnita, decidere se imporre ai contendenti una sospensione delle ostilità (come Stati Uniti e Unione Sovietica fecero nel 1956 ai tempi della guerra per Suez con Israele, Francia e Inghilterra) o lasciare che si dissanguino contando sulla vittoria dell’uno o dell’altro. Se non addirittura su un’ulteriore scomposizione del quadro complessivo. Scomposizione che provochi il dissanguamento dei contendenti. A questo punto anche gli Stati Uniti.
È un fatto, però, che dall’inizio di questa crisi (7 ottobre 2023) il quadro di alleanze dell’Iran con Paesi alleati e gruppi terroristici è andato in pezzi. E che, dall’inizio del suo mandato alla Casa Bianca, tra tante parole date e poi ritirate, il primo atto concreto compiuto da Donald Trump sia stato quello dell’altra notte a favore di Israele. Anche a costo di entrare in conflitto con l’opposizione democratica e, ciò che per lui più conta, con parte del suo establishment e del suo stesso elettorato. Bombardare gli impianti nucleari iraniani — per di più in violazione di un pubblico impegno a non prendere iniziative per due settimane — è un gesto sorprendente che si presta a un’infinità di valutazioni e di supposizioni. Delle quali parleremo per giorni.
Ma, visto che abbiamo riparlato del 7 ottobre, c’è qualcosa che fin qui è sfuggito a buona parte degli osservatori. Quel giorno il mondo intero è stato costretto ad assistere ad un autentico pogrom, il primo del terzo millennio. In seguito, gran parte di quel mondo intero ne ha minimizzato la portata, trattandolo alla stregua di un «doloroso» episodio del conflitto tra israeliani e palestinesi che è in corso da decenni. Preceduto e seguito da fatti altrettanti riprovevoli.
Ma per qualcuno — per carità, un’infima minoranza — un pogrom resta un pogrom. Tanto più se trascina con sé un’evidente onda antisemita (e qui ripetiamolo per l’ennesima volta: la critica anche durissima agli atti del governo israeliano non è da considerarsi alla stregua di una manifestazione di antisemitismo. Mai). Però c’è ancora quell’infima minoranza di cui si è detto, anche non ebraica, che, quando nel Giorno della Memoria pronuncia le parole «mai più» non le intende come una formula rituale, un omaggio che non costa nulla a episodi di ottant’anni fa. Per questa trascurabilissima minoranza «mai più» vuol dire «mai più». Mai più.

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