La rissa nel Senato, le urla, gli insulti dei ministri a parlamentari che intervengono in aula, sembrano la caricatura offensiva della dialettica politica, lo sbeffeggiamento della vitale utilità, nel delicato ingranaggio della libertà, delle istituzioni rappresentative
È finita con una rissa nell’emiciclo del Senato della Repubblica, la settimana in cui le parole del discorso pubblico hanno perso il senno. Tutto sbagliato, tutto esagerato, tutto diseducativo e tutto inutile. Non le rievoco, perché fanno male al cuore, oltre che alla ragione. Non è solo l’uso di un linguaggio che diventerà difficile, per genitori e insegnanti, negare ai loro figli.
È l’intenzione che ha mosso quelle parole, quei gesti, che spaventa. Si pensa evidentemente che, per sfondare muri che non esistono più, per ottenere una visibilità della quale ampiamente si dispone, si debba andare oltre, stupire, mostrare una greve predisposizione allo scandalo delle parole. Le parole sono ciò che qualifica le nostre vite, che raccontano il nostro pensiero, se c’è, la nostra disponibilità al dialogo, la misura dell’odio che ci invade o ci sfiora.La rissa nel Senato, le urla, gli insulti dei ministri a parlamentari che intervengono in aula, sembrano la caricatura offensiva della dialettica politica, lo sbeffeggiamento della vitale utilità, nel delicato ingranaggio della libertà, delle istituzioni rappresentative. Non ci si accorge dello stupore, dell’indignazione, del distacco che quelle immagini determinano nell’opinione pubblica? Andare a votare per costituire un ring da wrestling finirà presto per apparire definitivamente inutile.
Lo so, che i social, nella loro frettolosa pesantezza, richiedono pensieri concitati, semplificati, brutalizzati. Lo so, che il gesto digitale rivolto ai followers è diventato più importante della manifestazione pubblica della volontà di cittadini consapevoli.
Non si spiegherebbe altrimenti perché, di fronte agli inediti e spaventosi rischi per la pace, i primi di questa consistenza dalla fine della Seconda guerra mondiale, di fronte alle decine di migliaia di morti in Ucraina o in Palestina, la politica italiana, impegnata a prendersi a sganassoni tra i velluti di Palazzo Madama, non abbia trovato il tempo e le motivazioni per convocare le più grandi manifestazioni popolari mai viste per difendere la pace, per contrastare bombardamenti su civili, terrorismo e logiche di potenza. La violenza delle parole, il loro volume insopportabile, copre il deserto di valori che si è impadronito di un discorso pubblico fatto di odio sociale, di intolleranza politica e culturale.
Lincoln diceva che «la demagogia è la capacità di vestire le idee minori con parole maggiori» e noi oggi siamo sommersi dalla ridondante vuotezza della demagogia e del populismo che si alimentano unicamente della cultura dell’odio, che traggono forza dalla demonizzazione dell’altro da sé, dalla negazione del diritto alla cittadinanza di idee che non siano le proprie. Ma se si negano le idee, si finirà prima o poi col negare alle persone che le professano anche la possibilità di farlo. Autoritarismo e demagogia, odio e populismo sono le pericolose barriere che impediscono alle parole di incrociarsi, fondersi, contaminarsi, di cercare, anche quando sembra impossibile, basi di convivenza senza le quali si precipita nella violenza assolutista.
Un agile libro di Tullio De Mauro di recente pubblicazione ci ricorda, fin dal titolo, «Il valore delle parole». Quando esse finiscono, quando rimbalzano inascoltate sugli schermi delle identità esclusive e serrate, rimane allora solo il linguaggio della forza, il linguaggio della guerra.
Insultarsi è facile, prendersi a spintoni anche di più. È più difficile dialogare, usare gli argomenti della ragione, della competenza, praticare la meravigliosa energia della dialettica e del conflitto e attingere a risorse e motivazioni profonde per contrastare ciò che non si condivide.
In questa settimana, ma non solo, il discorso pubblico, a tutti i livelli, si è fatto bambino, con rispetto per i bambini.
Alda Merini diceva di adorare le persone che sanno scegliere le parole da non dire. E aveva ragione.
Breve e violento non necessariamente coincidono con bello e, men che meno, con giusto.
Giacomo Matteotti, in quel Parlamento oggi trasformato in ring o set per i social, resistette a quelli che gli urlavano di tacere. Gli stessi che poi lo fecero tacere davvero, per sempre.
Le sue parole erano forti e vere. Non erano grida, non erano insulti. Erano fatti, erano idee e valori.
Ripartire da lì, sarebbe cosa buona e giusta.