Magistratura, premierato e autonomia differenziata: la volontà riformatrice della premier Meloni apre la strada a tre referendum istituzionali

Con il disegno di legge costituzionale approvato dal Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni ha messo sul tavolo di questa legislatura la riforma della magistratura dopo quella della forma di Stato (autonomia regionale differenziata) e della forma di governo (elezione diretta del premier). La portata del progetto di cambiamento delle istituzioni è senza precedenti. Altri ci hanno provato sull’una o l’altra materia, peraltro senza riuscirci; ma mai su tutte e tre insieme.
Ciò va certamente a onore della volontà riformatrice della maggioranza di centrodestra, vantata del resto dalla premier che è così convinta di aver mantenuto la promessa elettorale.
Ma, allo stesso tempo, apre la strada a ben tre referendum istituzionali. Due obbligatori e confermativi (dunque senza quorum) se le rispettive riforme costituzionali — come è al momento più che probabile — non raggiungeranno i due terzi dei voti in Parlamento. L’altro, quello sull’autonomia regionale, sarebbe invece abrogativo (dunque con quorum richiesto) e andrebbe promosso attraverso una raccolta di firme; ma la veemenza con cui l’opposizione e alcuni governatori meridionali si stanno scagliando contro la legge cara alla Lega, fa considerare quasi certo anche questo terzo referendum.
È dunque perfettamente lecito (come ha fatto di recente Paolo Pombeni) chiedersi se il nostro sistema politico, già messo alla prova da una conflittualità esasperata e permanente, ormai giunta al limite dello scontro fisico nell’austera aula del Senato, possa reggere una sequenza di tre battaglie referendarie non su questo o quel provvedimento minore, ma sui fondamentali della Repubblica. Una delle quali, peraltro, si configurerebbe come un pericoloso derby nelle urne tra Nord e Sud mai visto prima in Italia.
Ne derivano seri problemi perfino di calendario: come stipare tre referendum nei prossimi tre anni? Farli tutti insieme è complesso, e può non risultare conveniente alla maggioranza. Separarli è pericoloso. Farli precedere dalle prossime elezioni politiche o abbinarli a quelle? Per ora la risposta è un gigantesco «non si sa».
A Palazzo Chigi devono esserne consapevoli. Ciascuno dei tre può essere un inciampo letale per il governo e per la legislatura. Tant’è vero che già girano voci di un rinvio di quello sul premierato fino a dopo le prossime elezioni politiche: il che combacerebbe con l’espressione «o la va o la spacca» di recente usata da Giorgia Meloni, perché dopo elezioni vinte è molto probabile che «la va», dopo elezioni perse invece quasi certamente «la spacca», ma a quel punto «chi se ne importa»…
Ma può la premier che ha investito tanto sull’elezione diretta del capo del governo lasciar passare tre anni facendo melina? E in ogni caso che ne sarebbe degli altri progetti riformatori, che hanno i loro sponsor nei due alleati di governo?
L’evidente complessità del problema, non solo per le convenienze dei partiti ma anche per il futuro della Repubblica, richiederebbe dunque più che un calcolo tattico una strategia politica. Dovrebbe consistere nell’evitare almeno uno di questi referendum attraverso un dialogo con l’opposizione (o parti di essa) che consenta di raggiungere i due terzi in Parlamento; o che almeno ci provi con tanto sincero impegno da poter poi valere come prova di aver fatto davvero di tutto per evitare uno scontro aperto nel Paese.
Se ne gioverebbe anche la qualità della legislazione. Se infatti la riforma della giustizia, comunque la si giudichi nel merito, mostra una coerenza logica e robustezza tecnica delle soluzioni, anche perché si fonda su dibattiti ormai trentennali cui hanno attivamente partecipato molte personalità oggi all’opposizione; le altre due, autonomia e premierato, non sembrano destinate, per come sono scritte, a risolvere i problemi che intendono affrontare. Si gioverebbero entrambe dunque di un vero e aperto dialogo parlamentare.
D’altra parte il referendum è la forma di consultazione che più di tutte determina maggioranze trasversali. Per vincere bisogna dividere il fronte degli avversari, non aiutarli a sommarsi ed unirsi a prescindere dalle loro differenze interne. Altrimenti si innesca il meccanismo del «tutti contro uno/a». È dunque interesse di chi vuole il cambiamento cercare punti di intesa con quelli dell’altra parte, invece di dar loro l’alibi di una union sacrée in difesa della patria minacciata.
Ma la responsabilità di evitare una triplice «guerra santa» non può ricadere solo sulla maggioranza. Se così fosse, equivarrebbe a dire che ogni volontà riformatrice — e Dio solo sa di quanta ce ne sia bisogno in Italia — debba sempre arrestarsi di fronte al «no» degli altri, che insomma i governi dovrebbero puntare solo al quieto vivere e al tirare a campare. Sarebbe così definitamente sancito quel «potere di veto» che ha finora paralizzato gran parte dei progetti riformatori delle nostre ormai anziane istituzioni.
Una parte spetta perciò anche all’opposizione. Se crede — come noi crediamo — che sia anche suo interesse non ritrovarsi, una volta al governo, a dover rimettere insieme i cocci di un Paese diviso dalla polarizzazione più estrema, deve smettere di gridare al golpe per innovazioni che esistono da tempo in altri paesi perfettamente democratici (governo forte in Parlamento, separazione delle carriere tra pm e giudici, forme di autonomia regionale) e concentrarsi sulle cose che davvero vanno cambiate per farle funzionare. Se non su tutte le riforme, perché sta cercando comunque uno scalpo elettorale, almeno su quella più delicata e complessa del premierato; o su quella dell’autonomia, innescata in fin dei conti da una riforma costituzionale voluta e votata dal centrosinistra. Temi sui quali ha una lunga storia di riformismo, e dispone perciò di numerose soluzioni praticabili, se e quando un dialogo sarà riaperto dalla premier.
Siamo abbastanza pessimisti da saper bene che la politica italiana preferisce invece sempre il gioco del cerino: ma stavolta di un incendio porterebbe la responsabilità chiunque non avesse provato a prendere l’estintore.

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