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I rapporti con Israele. Dal dibattito negli atenei sono arrivati segnali inequivocabili. E si apre una settimana calda

Forse è stato eccessivamente duro — in un colloquio con Andrea Malaguti, direttore de La Stampa, a commento dell’immagine del Senato accademico torinese che ratifica la decisione di non partecipare a un bando di cooperazione con università israeliane avendo alle spalle un gruppo di studenti che esigeva quella ratifica — Gustavo Zagrebelsky che dapprima ha messo in dubbio l’autenticità della foto, poi ha esclamato: «Non voglio crederci, così si perde la dignità». Effettivamente la foto è inquietante: i contestatori, con bandiere palestinesi e uno striscione per il boicottaggio di Israele, sono tutti a testa alta; i «senatori» no. Nessuno. Chi legge al computer, chi un documento cartaceo, chi il telefonino, chi armeggia ad un microfono, chi cerca qualcosa sotto il tavolo. Non uno che abbia avuto la «dignità» di alzare gli occhi e guardare in direzione dell’obiettivo.
Usciti da quella riunione, il rettore, Stefano Geuna, ha esultato per quell’intesa. La preside del dipartimento di Matematica, Susanna Terracini, si è invece dissociata mettendo agli atti l’«impressione» che ci fosse stata «un po’ di superficialità nel voler assecondare le istanze degli studenti». Il «senatore» Francesco Ramella ha messo in chiaro che le delibere erano state prese in precedenza e che quello rimasto (per così dire) impressionato sulla pellicola, altro non era che «un momento di dialogo al termine dei nostri lavori». Gran bel dialogo, non c’è che dire.
Con quelle parole, ci sembra che Gustavo Zagrebelsky, in quanto ex presidente della Corte costituzionale, abbia messo l’onore delle istituzioni al riparo da ciò che si può intuire dall’immagine di cui si è detto. Anche perché la parte successiva della sua intervista — tutt’altro che insensibile nei confronti delle decine di migliaia di palestinesi uccisi a Gaza (anzi!) — andava a completare un ragionamento già iniziato, sempre sulle colonne de La Stampa, da un altro illustre giurista, suo fratello Vladimiro. In un intervento contrario al «taglio dei ponti» con le università israeliane. I due Zagrebelsky hanno manifestato, altresì, stupore per la mancata «menzione di eguale ripulsa per il barbarico massacro di ebrei commesso da Hamas il 7 ottobre e per la sorte degli ostaggi» (parole di Vladimiro). In questo modo i fratelli Zagrebelsky, sulla scia di altri illustri «azionisti» torinesi — Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, i quali, possiamo immaginare, sarebbero intervenuti in modo non dissimile — hanno salvato anche l’onore della sinistra italiana a cui in senso lato appartengono. Sinistra che si è fin qui mostrata alquanto distratta nei confronti di quel tipo di accadimenti.
Torino, infatti, non è un caso isolato. Anche la Scuola Normale Superiore di Pisa — sia pure con minore entusiasmo da parte del suo direttore, Luigi Ambrosio che ancora ieri si dichiarava contrario a questo genere di boicottaggi — ha dato l’impressione di voler interrompere quel genere di relazioni con gli atenei israeliani. In questa occasione la parte della Terracini se l’è assunta l’associazione degli Amici della Normale che ha espresso il proprio «sconcerto». Per il merito. E per le modalità con cui il tutto sta avvenendo in diverse città italiane. Il rettore dell’Università di Pisa (che è cosa diversa dalla Normale), Riccardo Zucchi, ha riferito che, nel corso della riunione con i suoi colleghi, gli è parso di partecipare a un «collettivo studentesco». A Genova il rettore Federico Delfino è stato apostrofato come «genocida» e «assassino». A Roma Antonella Polimeni ha avuto problemi analoghi. A Bari l’astuto rettore Stefano Bronzini, inseguito da cori di insulti e spintoni, ha convocato una sessione straordinaria del senato accademico per il 9 aprile, ventiquattr’ore prima della scadenza del bando sui rapporti con gli atenei israeliani. Così, quale che sia la decisione, il giorno dopo non la si potrà rimettere in discussione. Segnali inequivoci dai quali si può desumere che questa prima settimana di aprile non sarà tranquilla. Per nessuna università.
Alcuni dirigenti di importanti istituzioni culturali — messi di fronte a problemi dello stesso tipo — sono ricorsi ad una soluzione brillante. Pietrangelo Buttafuoco ha annunciato che alla Biennale d’Arte di Venezia terrà sì aperto il padiglione di Israele ma anche quello dell’Iran, entrambi contestati sia pure per motivi diversi. Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di Siena, ha sospeso la didattica per la festa di fine Ramadan ma ha preso l’impegno di fare lo stesso nei giorni dello Yom Kippur quando cadrà il primo anniversario della carneficina del 7 ottobre. Temo però che i meno ardimentosi tra i professori universitari che si avventurassero a escogitare «soluzioni» analoghe, verranno costretti prima o poi a qualche disonorevole capitolazione.
Angelo Panebianco, prendendo spunto da ciò che di simile è accaduto nelle università americane, ha scritto su queste pagine di sperare che «tanti docenti occidentali capiscano quanto grande sia il pericolo se si permette che a guidare le università siano dei don Abbondio». Parole più che condivisibili. Ma per quel che ci par di intuire circa la tenuta nervosa dei nostri professori (esclusi, ovviamente, quelli che condividono le idee dei manifestanti), sarebbe saggio non metterli alla prova.

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