Modi ha vinto ma non stravinto nel  Paese con la crescita più alta  al mondo. Ma sarà in grado di portarla avanti?

Chi era terrorizzato dal super anno elettorale, ora ha almeno una ragione per rilassarsi un po’. Nella tornata di voto delle settimane scorse, la democrazia più grande del pianeta, quella indiana, ha confermato di essere solida e viva. Erano in molti a dubitarne, ad accusare Narendra Modi di averla trasformata in un’autocrazia repressiva. Non è così, contro tutte le aspettative il primo ministro è stato ridimensionato dagli elettori: resterà al suo posto per un terzo mandato consecutivo ma senza più la luce semidivina di invincibilità che lo ha accompagnato per dieci anni. E con un complicato governo di coalizione con il quale fare compromessi. Come succede spesso nelle democrazie.
Le elezioni indiane sono un’operazione complicata e affascinante. Tenute tra il 19 aprile e il 1° giugno in sette tornate, per fare votare 950 milioni di aventi diritto, sono state come sempre una festa di massa di colori, di slogan, di petali di fiore e anche di voti guadagnati con qualche rupia o con un sari colorato.Modi voleva ottenere una maggioranza di due terzi che gli avrebbe consentito, tra l’altro, di modificare la Costituzione secolare e multiculturale. Il suo partito, Bjp, non è invece riuscito a conquistare nemmeno la maggioranza assoluta dei seggi al Lok Sabha, il parlamento, a differenza che nelle elezioni del 2014 e del 2019. È un esito destinato ad avere conseguenze in India e nel mondo.
In apparenza, la politica estera di Delhi non cambierà. Sia il Bharatiya Janata Party (Bjp) di Modi sia l’opposizione guidata dal Congresso dei Gandhi (nessuna relazione con il Mahatma) sanno di non potere abbandonare il binario su cui il Paese corre da anni: una competizione con la Cina per l’egemonia nell’Indo-Pacifico e la gestione di rapporti storicamente tesi, e in armi, con il vicino Pakistan, potenza nucleare come l’India. Il Paese continuerà a essere vicino agli Stati Uniti e all’Occidente pur senza aderire ad alcuna alleanza formale. Un Modi indebolito, però, cambia anche le equazioni nelle relazioni estere. Sia Pechino sia Islamabad potrebbero cercare di approfittare di quella che sarà una minore stabilità del governo indiano: già da ieri, a Delhi si temono nuove scaramucce sui confini cinese e pakistano, possibili operazioni di terroristi e soprattutto maggiori pressioni di Xi Jinping e del Partito Comunista Cinese sui governi della regione per indebolire i loro legami con l’India (come è successo di recente con le Maldive).
Fino a pochi giorni fa, inoltre, Modi era considerato il leader naturale del cosiddetto Sud Globale, dei Paesi che non si vogliono allineare da nessuna parte nel confronto tra Stati Uniti e Cina.
Il colpo che ha subito nelle elezioni intacca anche a livello internazionale la narrazione della sua marcia trionfale per condurre l’India verso lo status di grande potenza. Il Paese rimane su questa traiettoria ma la capacità di leadership globale del primo ministro è diminuita. Per la soddisfazione di Pechino, la quale è in competizione per essere la capitale guida dei Paesi emergenti e in via di sviluppo, soprattutto nell’associazione dei Brics.
C’è poi l’economia. Nell’anno fiscale terminato lo scorso marzo, l’India è cresciuta di oltre l’8%, più di qualsiasi grande Paese del mondo. In dieci anni di governo, Modi e il Bjp hanno promosso una serie di riforme pro-business, hanno ridotto la corruzione e semplificato l’intricata burocrazia. Hanno realizzato un programma enorme di infrastrutture — strade, ferrovie, porti, aeroporti, reti digitali — per attrarre investimenti dall’estero. Ora, il governo si è dato l’obiettivo di riformare le leggi sul lavoro e sull’uso della terra per creare le condizioni favorevoli a investimenti nella manifattura che crea occupazione. La domanda che già si fanno analisti e investitori è se ora, indebolito, il Bjp sarà in grado di portarle avanti; e di continuare sulla strada iniziata nel 2014. Anche perché la campagna elettorale delle settimane scorse si è sviluppata su contenuti populisti e l’opposizione guidata da Rahul Gandhi ha raccolto più voti del previsto su una piattaforma per nulla favorevole a riforme di apertura dell’economia. Anche alla politica economica il mondo guarderà nelle prossime settimane per capire se l’India rimane quel miracolo, in parte alternativo al mercato cinese, che è sembrata quando Modi appariva irrefrenabile.
Sul piano interno, ora le cose si sono complicate nella Lyutens Delhi, il quartiere della politica e dei politici nella capitale indiana. Il nuovo governo sarà guidato ancora dal Bjp ma dovrà contrattare le politiche più importanti con due partiti minori che non ama e che lo sostengono per interesse. Al momento, pare non ci sia il rischio che queste due formazioni cambino campo e si alleino con l’opposizione per estromettere Modi dal potere. Di certo, hanno cinque anni per fare pagare al Bjp il prezzo del loro appoggio. Bjp che, inoltre, dovrà moderare la politica nazionalista e di egemonia induista sul Paese, di fatto bocciata dagli elettori.
Gli indiani, insomma, hanno ribadito nel modo più netto la loro verità di sempre: vogliono rimanere una grande democrazia perché un Paese, per quanto povero, non ha bisogno di uno Stato autocratico come quello proposto dal modello cinese; pur nelle difficoltà, la crescita economica e le libertà dei cittadini vivono bene assieme. Era vero quando Modi era considerato l’avatar purush, l’incarnazione di una divinità, ed è vero ora che è sceso sulla Terra. Deve ribadirlo anche lui.

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