ECONOMIA
Fonte: La Stampa
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Malumori nei partiti, tempi più lunghi per i sottosegretari

ROMA

Nella ricetta economica di Matteo Renzi c’è qualcosa che non torna. Possibile conciliare dieci miliardi di tagli alle tasse e allo stesso tempo rispettare gli impegni con l’Europa? Il primo Renzi – quello che qualche settimana fa non escludeva di farlo – avrebbe sfidato regole e burocrazie europee. Il Renzi presidente del Consiglio in aula si è mostrato molto più cauto e consapevole dei rischi che questo comporterebbe.

 

Il muro insormontabile è sempre lo stesso, si chiama debito pubblico e alla fine di quest’anno raggiungerà il 133,7% del prodotto interno lordo: quella tendenza va quantomeno invertita.

Con numeri così non ci sono privatizzazioni che tengano.

 

Nella migliore delle ipotesi quelle decise dal governo Letta garantiranno sei miliardi una tantum, un niente rispetto ai duemila di debiti sui quali sediamo tutti insieme appassionatamente. L’unica strada possibile – lo dice da anni la Banca d’Italia – è recuperare competitività e riprendere a crescere ad un ritmo pari ad almeno il 2% l’anno, quasi quattro volte la previsione dell’Europa sull’Italia per il 2014.

 

La notizia peggiore delle previsioni economiche arrivate ieri da Bruxelles è questa: con un Pil che quest’anno salirà appena dello 0,6%, restiamo in fondo alla classifica in compagnia della Grecia. Un taglio visibile delle tasse sul lavoro (cioè tutt’altra cosa rispetto a quello voluto dal governo Letta) è possibile e potrebbe effettivamente cambiare il quadro con una certa rapidità: tagliare l’Irap del 10% costa “appena” 2,3 miliardi di euro ed avrebbe un buon effetto potenziale. Più costoso è garantire 500 euro l’anno di minor Irpef a tutte le famiglie con redditi al di sotto dei trentamila euro lordi.

 

In ogni caso, anche se promettessimo l’impossibile e fossimo capaci di meraviglie, all’Europa non basterà: entro primavera occorrerà garantire un mix di minori tasse, o almeno una rimodulazione di quelle esistenti e soprattutto un taglio della spesa.

 

Il punto che a Natale ha creato tensioni fra il Tesoro e gli uffici della Commissione è proprio questo: quali e quanti tagli garantire già da quest’anno con il programma di revisione della spesa. Il numero magico è sei miliardi: guardacaso i risparmi considerati possibili già da quest’anno dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli nel dossier consegnato al neoministro Pier Carlo Padoan. Almeno 2,5 miliardi potrebbero arrivare con la razionalizzazione delle spese per gli acquisti della pubblica amministrazione, altri 1,5-2 miliardi con il taglio dei sussidi alle imprese pubbliche. Come dimostra l’esperienza del governo Letta, senza di essi non ci potrà essere alcuna riduzione visibile della pressione fiscale.

 

La storia ci invita ad essere scettici fino a prova contraria: nessun governo è mai davvero riuscito a invertire la dinamica della spesa. Ecco perché anche nel menù di Renzi non mancano gli aumenti delle tasse, nella fattispecie quelle sulle rendite finanziarie. Le ipotesi sono due: o innalzare al 20% quelle sui titoli di Stato (oggi ferme al 12,5%) portandole al livello imposto per tutte le altre (conti correnti, obbligazioni, eccetera) o innalzandole tutte al 23%, e in ogni caso abbassando dall’11,5 al 5% il prelievo imposto sul risparmio previdenziale come i fondi pensione, in Italia ancora troppo poco diffusi.

 

Dice il responsabile economia Pd Filippo Taddei: «L’ipotesi resta in campo, perché in nessuno dei grandi Paesi europei esiste un simile dualismo nella tassazione delle rendite. Non in Francia, non in Germania, né in Spagna e Gran Bretagna. Ed è difficile da spiegare alla gente che una rendita è tassata fra il 12,5% e il 20% mentre un qualunque reddito da lavoro paga almeno il 23%».

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