L’assassinio di Giulia Cecchettin resterà il primo ricordo di una generazione — i nostri bambini —, e rappresenta per quella successiva — i nostri adolescenti — la prima occasione di affacciarsi alla vita pubblica, di manifestare dolore e sdegno, di protestare e chiedere un cambiamento.
È uno dei rari casi in cui la cronaca diventa storia, in cui una tragedia ripetuta troppe volte — 106 solo quest’anno — spezza la cappa dell’indifferenza e diventa patrimonio collettivo, e quindi occasione di riscatto. Mai più. L’abbiamo detto troppe volte, sempre invano, e sappiamo che pure questa volta accadrà di nuovo. Eppure qualcosa destinato a non passare è accaduta. La condanna della violenza sulle donne è ormai generale e irreversibile.
Fino a non molto tempo fa, non era scontato. Fino al 1975 esisteva la «potestà maritale», e la Cassazione stabilì che poteva essere esercitata anche con «mezzi coercitivi»: picchiare la moglie non era reato. Fino al 1981 esisteva il delitto d’onore: chi trovava la moglie o la sorella o la figlia con un uomo e la uccideva a volte non finiva neppure in galera. Ora tutto questo è alle spalle. Ma le conquiste non sono acquisite per sempre. E la battaglia non è vinta.
In questi giorni si fronteggiano due estremismi, due radicalità, legittime ma non sempre utili. Ci sono uomini che dicono: il colpevole è uno solo; chiudiamolo in galera e buttiamo la chiave; ma noi in quanto uomini non abbiamo alcuna responsabilità. Ci sono donne che dicono: gli uomini tacciano; non esiste il «maschio progressista» (lo dice pure qualche uomo), siete tutti cavernicoli; soltanto noi donne possiamo parlare, in nome della sorellanza; ci difenderemo da sole.
A me pare invece che la questione riguardi innanzitutto gli uomini. Perché la violenza sulle donne non è un problema delle donne soltanto; è un problema degli uomini. Sono gli uomini che debbono cambiare, e far cambiare i violenti, coloro che non accettano un No o un Basta, un diniego o un abbandono. Coloro che hanno paura della libertà della donna, in Iran la bastonano se non porta il velo, in Africa la mutilano per privarla del piacere, in Europa e in Italia in particolare la uccidono perché «mia o di nessun altro». Coloro che si ritengono proprietari del corpo e dell’anima della donna, e si rifiutano di riconoscere la sacrosanta libertà della donna di uscire con chi vuole, vestita come vuole, di sposare chi vuole e di amare chi vuole
È ovvio che questi uomini rappresentano una minoranza. Ma la maggioranza se ne deve occupare, non girarsi dall’altra parte, compiacersi della propria diversità, parlar d’altro.
La responsabilità penale è ovviamente personale. Ma tutti si devono fare carico di questa emergenza. Fermare i violenti, ma anche superare una cultura di sopraffazione, di misoginia, di prevaricazione. Denunciare e convincere a farlo. Rispettare e insegnare il rispetto: perché dietro l’omicidio che diventa notizia ci sono milioni di piccoli soprusi che non finiscono sui media, che ogni donna prima o poi conosce, e diventano un bagaglio segreto che può rendere più forti ma anche schiacciare come un peso. È troppo facile scandalizzarsi quando tocca a nostra figlia, a nostra sorella, alla nostra compagna, a nostra madre. È per tutte le donne che tutti dobbiamo impegnarci.

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