Stiamo precipitando in una grande solitudine. Una condizione mascherata con il suo contrario: l’idea di essere sempre freneticamente collegati con altri come te

A guardarli sui social, i video dei primi utilizzatori del Vision pro di Apple, sembra davvero di precipitare in una puntata di Black Mirror, la serie televisiva che si è sforzata, inascoltata, di metterci in guardia dai pericoli dell’unico «social-ismo reale» che sia rimasto: quello dei like, dei follower, degli influencer e dei creatori digitali. Si vedono dei ragazzi, prevalentemente maschi, girare con questi occhialoni per strada agitando le dita nel vuoto per aprire le applicazioni che i loro occhi hanno fissato sul visore.
Circolano anche le immagini di un pranzo di famiglia, tutti al desco con gli occhiali indosso e giù la pasta. La Rete ora è bucata e stiamo precipitando in una grande solitudine. Una condizione indotta, favorita, mascherata con il suo contrario: l’idea di essere sempre freneticamente collegati con il rutilante svolgersi delle cose del mondo, con altri come te. Gente che esce di casa con una maschera, che muove le dita nel vuoto, che si isola dal contesto delle relazioni con l’altro da sé, nell’illusione di vivere una vita che sempre di più diventa virtuale, cioè irreale. Le tecnologie sono favolose, hanno cambiato fin qui in meglio la nostra vita, persino consentito di guadagnare giorni da vivere, albe da conoscere, baci da dare.
La scienza ci ha portato ai confini dell’inimmaginabile, con le sue conquiste in ogni dimensione della nostra vita. Non bisogna fermarsi. Abbiamo visto quanti danni facciano i pregiudizi antiscientifici e antimoderni che sono dilagati ovunque attorno alla brutale vicenda del Covid. Ma dove sono nati quei pregiudizi? Proprio nella Rete, nei social, nella frenesia della lettura semplificata e sospettosa di un mondo in cui non esiste più la verità. Non dovremmo fermarci un momento a cercare di capire cosa ci sta succedendo, a individuare le mutazioni culturali, sociali, politiche, persino antropologiche che la grande rivoluzione digitale ha indotto?
Anche l’automobile è stata una grande scoperta. Prima si viveva peggio. Ma non per caso abbiamo inventato il codice della strada, la cintura di sicurezza, i limiti di velocità, accettato la patente e persino i limiti d’età. E, come dimostra la vicenda dei 30km all’ora, non smettiamo ancora di preoccuparci di mettere in armonia il bisogno di movimento con la vita umana e la sua salvaguardia. Ma questo non accade nel rutilante mondo del digitale che ha sempre operato in una condizione di assoluta assenza di regole, di segnali stradali capaci di evitare conseguenze devastanti.
Il Parlamento Usa ha recentemente messo sotto accusa i social per la quantità di suicidi che hanno indotto tra i giovani americani. Zuckerberg non ha reagito, ha fatto solo una cosa: ha chiesto scusa. «Mi dispiace per tutto quello che avete dovuto passare. Nessuno dovrebbe attraversare quello che voi avete attraversato» ha detto ai genitori dei ragazzi che sventolavano le foto dei figli perduti, nell’aula del Senato.
Né apocalittici né integrati, ma dobbiamo essere cittadini consapevoli che ogni rivoluzione del sapere e del comunicare sposta di un centimetro o di cento metri più avanti la frontiera delle regole e dei diritti. I ragazzi vengono travolti da ondate di odio, dal bodyshaming, dalla derisione, fino all’isolamento fisico e morale nell’ unica comunità che finisce col contare, quella dei followers, il loro universo di riferimento. Chi pensa a loro?
Save the Children ha pubblicato un rapporto in cui dimostra che il quaranta per cento dei ragazzi tra gli undici e i tredici anni sta già sui social e lì passa gran parte della giornata. I neuropsichiatri infantili raccontano della frustrazione o della vera e propria depressione che colpisce ragazze, stavolta soprattutto loro, che registrano di avere un numero di follower inferiore ad altre coetanee. Le ferite provocate dal bullismo sono sempre esistite, ma ora diventano in tempo reale una notizia universale, alla quale non c’è scampo, non c’è riparo. Si costringe i ragazzi ad avere troppo presto, quando tutto è in formazione, una «bio», una definizione di sé, un pubblico al quale riferirsi e dal quale essere costantemente giudicati.
E ora chi ci mette al riparo dalla fine della verità? Con l’intelligenza artificiale, che tanti benefici porterà alla medicina, si potrà però far credere qualsiasi cosa a chiunque. E su questa, nella fretta e nella dietrologia dominanti, si alimenteranno campagne fondate sul linguaggio prevalente nei social: il rifiuto dell’altro, la sua demonizzazione, la negazione del suo diritto ad esistere. Si augura la morte degli altri perché la propria vita è solitaria e infelice. Perché non corrisponde a quegli stereotipi che vengono accreditati dalla pressione dei social che alimentano l’idea di un nuovo normotipo, ricco, bello, giovane, spietato, dedito a fare i soldi e avere successo.
In fondo un gigantesco tripudio del consumismo, in cui si rinuncia ad agire collettivamente e ci si limita, nel chiuso del proprio rabbioso isolamento, a giudicare il mondo, a mettere like, a postare, a parlare tutti ogni giorno di quello che la grande macchina impone come tassativo ordine del giorno. E a fondare lo spirito del tempo sugli umori di una Rete che poi vai a vedere se corrispondono davvero a esseri umani o non, come dimostrato da Gabanelli e Ravizza, ad algoritmi, a banche dati dei Big Data che vendono in giro i nostri profili come fossero panini. Si scaricano le proprie frustrazioni in un gioco spaventoso, cose da Rollerball, in cui si rischia di smarrire le ragioni fondamentali della convivenza tra umani. La tecnologia può migliorare il mondo, ma i decisori pubblici devono avere il coraggio di accompagnarla, in modo da mantenere universali la libertà e i diritti. O la democrazia sarà in grado di fissare regole — il codice della strada, le patenti per circolare, le cinture di sicurezza — oppure sarà travolta dalla semplificazione assoluta, dal complottismo, dal populismo, dalle verità inventate, dall’odio per l’altro, dalla rimozione del sapere, dell’esperienza, della storia, della conoscenza. Se non sarà così, da cittadini retrocederemo a followers. Non solo nella Rete.

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