12 Dicembre 2024
usa cina

In virtù del peso economico e politico dei contendenti, sarà tutto l’Indo-Pacifico a misurarsi con scelte che potrebbero stravolgere gli equilibri economici e strategici di alcuni dei principali motori della crescita mondiale

Il terremoto politico che ha riportato Donald Trump alla Casa Bianca è destinato a generare onde imponenti. E – se le promesse elettorali saranno mantenute – i marosi che attraverseranno l’Oceano Pacifico potrebbero trasformarsi in uno tsunami lanciato a grande velocità verso le coste asiatiche. A doverci fare i conti sarà in primo luogo la Cina. Ma, in virtù del peso economico e politico dei contendenti, sarà tutto l’Indo-Pacifico a misurarsi con scelte che potrebbero stravolgere gli equilibri economici e strategici di alcuni dei principali motori della crescita mondiale.

Il bersaglio cinese
Il punto di partenza sono inevitabilmente i dazi. In campagna elettorale Trump ha promesso tariffe del 60% sui beni di consumo cinesi. Se mantenesse la parola, Pechino – con i suoi 500 miliardi di dollari di esportazioni verso gli Stati Uniti, il 15% del totale – si troverebbe di fronte a una sfida a dir poco complessa. Per capire quanto, basta fare un raffronto con ciò che è accaduto nel 2018-19, quando l’agenda protezionista del leader repubblicano si concretizzò in dazi oscillanti tra il 7,5% e il 25% su 370 miliardi di dollari di beni made in China. Questa volta, oltre a tariffe più che doppie, a fare la differenza ci sarebbero le condizioni dell’economia cinese, che non sono più quelle del 2018.
All’epoca, un quarto del Pil di Pechino ruotava intorno al settore immobiliare. Oggi il real estate è in profonda sofferenza e non potrà aiutare la Cina ad assorbire l’impatto di una nuova guerra commerciale. Non solo. La crisi immobiliare ha zavorrato le amministrazioni locali di debiti destinati a ridimensionare di molto l’arsenale fiscale dispiegabile per attutire shock esterni. Un quadro reso ancora più incerto da altri fattori: una domanda interna che resta debole, con i consumi delle famiglie inferiori al 40% del Pil, circa 20 punti in meno della media mondiale; pressioni deflattive che verrebbero aggravate da una contrazione della domanda estera; margini di manovra limitati per deprezzare lo yuan di quel 18% che, secondo alcune stime, consentirebbe di compensare un 60% di dazi verso gli Stati Uniti.

Le possibili risposte
«La Cina – spiega Alicia Garcia Herrero, Asia Pacific chief economist di Natixis – di fatto non può rispondere» a tariffe doganali di questa portata. «Ciò che può fare – prosegue – è annunciare nuovi stimoli all’economia, così che i mercati non la penalizzino». Ma anche a cercare di contrattaccare. Per esempio imponendo dazi sul settore agroalimentare (grazie ai solidi rapporti commerciali con il Brasile), penalizzando le imprese americane con forti interessi cinesi e introducendo dei limiti all’esportazione di materie prime cruciali. È già accaduto lo scorso anno con il gallio e il germanio, due metalli utilizzati nei settori della difesa, delle comunicazioni e dei semiconduttori.
Ma siccome Donald Trump non è solo l’autore di “The Art of the Comeback”, ma anche di “The Art of the Deal” c’è anche la possibilità che le minacce a Pechino servano ad aprire un negoziato i cui contorni sono ancora tutti da definire. Se – assecondando le pulsioni isolazioniste del prossimo presidente Usa – la Cina offrisse delle concessioni commerciali in cambio di una qualche forma di disengagement degli Stati Uniti dallo scacchiere asiatico, le conseguenze a livello strategico potrebbero essere vaste.

Lo scacchiere geopolitico
A questo proposito il primo nome che viene in mente è Taiwan (un Paese che «dovrebbe pagarci per essere difeso», ha detto Trump la scorsa estate), ma non solo. Anche Giappone, Vietnam e Filippine si trovano nella scomoda posizione di avere delle dispute territoriali con la Cina proprio mentre alla Casa Bianca si sta per insediare un presidente che durante il suo primo mandato non ha perso occasione di trattare gli alleati come se fossero degli approfittatori, e ha offerto aperture di credito fino a quel momento impensabili al dittatore nordcoreano Kim Jong-un, il principale elemento di instabilità della regione. Difficile pensare che a Seul stiano brindando alla rielezione del leader repubblicano.
In Asia del Sud il ritorno di Trump dovrebbe essere una buona notizia più per l’India che per il Pakistan. New Delhi è ormai da anni il principale contrappeso politico e militare a Pechino e tra il prossimo presidente Usa e il primo ministro indiano Narendra Modi in passato c’è stata la consonanza di vedute tipica degli uomini forti con poca pazienza per minoranze, opposizioni e contrappesi democratici in generale. Viceversa, in passato Trump ha accusato Islamabad di «malafede» e – con gli Stati Uniti ormai fuori dall’Afghanistan – la centralità del Pakistan per una politica estera americana più filo indiana e meno interessata che in passato alla stabilità di medio lungo periodo del Subcontinente, potrebbe diventare un ricordo.

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