10 Novembre 2025

Il voto in Toscana. La vittoria di Giani è netta. Boccata d’ossigeno per Schlein. L’alta astensione mostra una sfiducia nella politica

Insistere sui dati preoccupanti dell’astensione può apparire quasi stucchevole. Di nuovo, va a votare meno della metà dell’elettorato: sia che vinca la sinistra in Toscana; sia che si affermi la destra come in Calabria e nelle Marche. Il dato di ieri colpisce di più perché un calo di quasi il 15% si registra in una delle regioni dove la partecipazione è stata storicamente alta.
Passare dal 62,2% del 2020 al 47,47 racconta un disincanto che non può essere sottovalutato. Ma è comprensibile che il partito di Elly Schlein canti vittoria. Magari non sarà una rivincita; tuttavia è una provvidenziale boccata d’ossigeno.
Il segno che trasmettono i risultati è anche un altro, però. Premia le forze moderate e penalizza gli estremismi. A prevalere sono un Pd che nella versione del governatore riconfermato Eugenio Giani ha cromosomi moderati, disprezzati dal M5S e guardati a lungo con diffidenza dalla segreteria nazionale. Prende voti una «lista del Presidente» collegata con la nuova Casa riformista di Matteo Renzi che sfiora il 9%. Crollano i Cinque Stelle, quarto partito del cosiddetto «Campo largo», superati anche da Avs, certificando un declino che negli enti locali assume i contorni della disfatta.
Si dirà che in Toscana il Pd è sempre stato forte, e Renzi mantiene un radicamento tale da allontanarlo dalle sue percentuali residuali a livello nazionale. Ma non si può ignorare che il successo di Schlein è ottenuto grazie a una dirigenza di governo regionale scettica sull’asse con il movimento di Giuseppe Conte. E, per come è andata, era uno scetticismo ben fondato. Come minimo, il M5S non è in grado di mobilitare che una frazione del suo elettorato del passato. Probabilmente questo non cambierà lo schema scelto dalla segretaria e dalla sua cerchia di fedelissimi. Quanto è accaduto ieri, tuttavia, ne sottolinea i limiti e le contraddizioni.
Sul versante della maggioranza di governo, la fotografia che emerge è simmetrica. La sconfitta è netta, quasi quindici punti di scarto. Ma senza che cambino i rapporti di forza. Il partito di Giorgia Meloni, FdI, consolida il primato con circa un quarto dei voti. Va abbastanza bene FI, seppure mancando un risultato a due cifre. E crolla la Lega, nonostante la presenza costante del vicepremier Matteo Salvini e le velleità smisurate del vicesegretario Roberto Vannacci. Il generale non sembra avere portato un esercito di elettori e elettrici. E, se l’ha fatto, significherebbe che la «vera» Lega è ai minimi termini.
Per Palazzo Chigi, il mancato exploit di Vannacci è rassicurante. Significa che la premier non deve temere un’erosione dei consensi a vantaggio dell’estrema destra. E anche al centro, la crescita dei berlusconiani non è tale da impensierire FdI. Semmai, qualche problema lo avrà il Carroccio. È lacerato dallo scontro tra la nomenklatura del Nord frustrata in Veneto e preoccupata dall’accerchiamento meloniano in Lombardia in vista del voto del 2028. E deve fare i conti con una protesta sorda per l’incoraggiamento di fatto che Salvini dà a una versione del leghismo, inquinata dalle parole d’ordine arroganti e estremiste di Vannacci.
La presunzione dell’ex militare che pensava di scardinare gli equilibri del Carroccio e perfino della coalizione di governo si è rivelata fallimentare. E ora, più di prima, l’impressione è che la Lega si prepari a una resistenza interna e verso gli alleati, tale da evocare perfino la creazione di un altro partito: una sorta di «Rifondazione leghista» decisa a difendere l’identità nordista. I malumori che si addensano intorno al governatore uscente del Veneto, Luca Zaia, portavoce della leadership perduta, sono un indizio da non sottovalutare. Ma, al di là del futuro delle singole forze, affiorano problemi più profondi e, verrebbe da dire, di sistema.
Il fatto che oltre metà dell’elettorato rifiuti l’offerta politica di oggi dovrebbe indurre i partiti a chiedersi da dove parta e dove si annidi la diserzione dalle urne; e a uscire da una cultura della rissa che stordisce e respinge. L’urgenza di prepararsi alle Regionali tra Puglia, Campania e Veneto, sarà un alibi per eludere il tema sostenendo che manca il tempo.L’incognita del referendum sulla giustizia nel 2026 e la prospettiva delle Politiche del 2027, però, ripropongono drammaticamente il tema della partecipazione. E dovrebbero far capire che prevarrà chi riuscirà a ridarle spinta con un’offerta meno gridata, più credibile. E più moderata: anche se la parola «moderazione» oggi suona quasi come una parolaccia.

A.N.D.E.
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