13 Ottobre 2024
kamala harris

kamala harris

La sfida Harris-Trump: nonostante la vittoria in tv, i sondaggi dicono che negli Stati in bilico è sempre testa a testa tra loro due

Esaurita una «luna di miele» iniziata a fine luglio col passo indietro di Joe Biden che ha trasformato Kamala Harris, figura fin lì opaca, nella grande speranza del fronte progressista, il dibattito di Philadelphia doveva segnare il ritorno al centro del ring di Donald Trump: un leader costretto per la prima volta, da quando fa politica, a vivere una quaresima di semioscurità. Non è andata così e già questo basta a decretare la vittoria — significativa ma non definitiva — della vicepresidente. Vittoria ottenuta in un faccia a faccia nel quale la strategia aggressiva di Kamala è stata chiara fin dal primo momento: avanti a passo deciso verso l’angolo di Trump andando a stringere la mano a un avversario rimasto trincerato dietro il suo podio.
L’ex presidente non ha vissuto una debacle paragonabile a quella di Biden nel dibattito di Atlanta. Si è difeso usando gli argomenti consueti (comprese esagerazioni e falsità). Non ha compromesso le sue possibilità di tornare alla Casa Bianca: i sondaggi dicono che negli Stati in bilico è sempre testa a testa tra i due candidati e sappiamo che, per come è congegnato il sistema elettorale Usa, i democratici, se vogliono arrivare alla presidenza, hanno bisogno di qualche milione di voti in più. Kamala ha ancora una montagna da scalare, ma se negli ultimi giorni la spinta propulsiva si era esaurita e lei sembrava bloccata a metà parete, ora ci sono le condizioni per ricominciare a piantare chiodi nella roccia.
Tre i fattori che hanno consentito a un personaggio fin qui considerato poco empatico di non essere schiacciato da un maestro della comunicazione televisiva e, addirittura, di vincere ai punti il confronto. In primo luogo l’atteggiamento personale, il linguaggio del corpo. Kamala, tesa, col collo rigido in una prima risposta data col tono di chi sta seguendo un copione imparato a memoria, si è poi sciolta: ha cominciato a replicare agli attacchi di Trump con sarcasmo, con qualche sorriso di sufficienza, scuotendo la testa con rammarico, senza rabbia.
Efficace lei, insolitamente passivo lui. Ci si aspettava il solito, prorompente Trump: ma una cosa è parlare in comizi dove, in assenza di contraddittorio, si può dire qualunque cosa, giocare con falsità e iperboli suggestive. Altro è il faccia a faccia davanti a decine di milioni di americani. Evidentemente spinto dalla sua campagna a frenare gli impulsi più viscerali, a evitare insulti e commenti sessisti che mandano in delirio i suoi fedelissimi, ma non piacciono ai moderati che deve conquistare, Trump è apparso trattenuto: a volte una sfinge, a volte con movimenti facciali di nervosismo mentre Kamala menava i suoi fendenti.
Il secondo fattore: la strategia scelta per indirizzare il dibattito. Chiaro l’obiettivo della campagna di Kamala, arricchita da consiglieri come David Plouffe, ex stratega di Obama: non perdere tempo a difendersi dalle accuse di Trump ma andare sempre all’attacco rinfacciandogli (e ricordando agli ascoltatori-elettori) i suoi errori più gravi, prendendolo in contropiede sui terreni che dovevano essergli più congeniali. Orgoglioso delle piazze che fino all’ascesa di Kamala solo lui riusciva a riempire? E Allora la Harris invita tutti ad andare a un comizio di Trump per vedere la gente che se ne va in anticipo annoiata ed esasperata da discorsi infiniti a ruota libera, con concetti ripetuti più volte, frasi confuse, riferimenti incomprensibili, come quelli al «cannibale» Hannibal Lecter.
È una trappola, ma Trump ci cade dentro. Mentre quando Donald accusa la sua avversaria di essere una marxista, «come sanno tutti», lei liquida la cosa con un sorriso di sufficienza e, anziché perdere tempo a replicare, lo attacca sull’aborto, il tema sul quale è più vulnerabile, sui comizi l’ex presidente si incendia ricorrendo alle solite esagerazioni: «Nessuno ha più successo di me in piazza, da te non viene nessuno salvo quelli che paghi e trasporti in autobus per venirti a sentire». Pura strategia difensiva che convince solo fans già convinti: tempo prezioso che Trump avrebbe potuto dedicare a incalzare Kamala sul suo magro bilancio di 3 anni e mezzo di vicepresidenza, sull’inflazione, su un contenimento dell’immigrazione clandestina iniziato troppo tardi.
Trump, che ha rispettato solo in parte le indicazioni strategiche della sua campagna rivendicando il diritto «di essere Trump», di seguire i suoi istinti, si ricorda solo alla fine di chiedere conto alla Harris degli obiettivi mancati dalla presidenza Biden. Troppo tardi: siamo già quasi ai titoli di coda.
Terzo fattore: la gestione del dibattito da parte dei conduttori dell’Abc, David Muir e Lindsey Davis. Sfacciatamente favorevoli alla Harris secondo i repubblicani che giustificano così la deludente performance del loro candidato. L’accusa principale — fact checking solo per Trump — è discutibile, anche se fondata: se le falsità sono asimmetriche con The Donald che spara affermazioni delle quali non c’è evidenza nei fatti (aborti che arrivano fino al nono mese e all’uccisione del bimbo già nato, immigrati che rubano e mangiano cani e gatti in Ohio, criminalità che ha sfondato tutti i tetti mentre le statistiche ufficiali dell’Fbi dicono il contrario) è inevitabile che i conduttori si soffermino soprattutto su questi punti chiarendo, ad esempio, che sopprimere un neonato è ovunque un omicidio.
È, però, vero che Kamala non è mai stata messa alle corde con domande dure: quando le hanno contestato i suoi cambi d’opinione su diverse questioni cruciali, ha promesso di rispondere su tutto, ma poi lo ha fatto solo per l’estrazione di petrolio e gas col fracking. E nessuno l’ha più incalzata: se ci sarà un altro dibattito dovrà aspettarsi una marcatura più stretta.

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