La guerra tra Russia e Ucraina segue una logica diversa rispetto alla Palestina. Il «fattore Trump», almeno finora, non ha funzionato in questo conflitto, come si è visto nel vertice di Ferragosto con Putin in Alaska
Dopo Gaza, l’Ucraina? È una domanda più istintiva che logica: se Israele e Hamas hanno raggiunto un accordo, perché Putin e Zelensky non possono fare la stessa cosa?
In base al suo personale conteggio, Donald Trump sostiene di aver appena «chiuso l’ottava guerra», quella in Medio Oriente. Ora è pronto ad archiviare la nona, tra Mosca e Kiev. Il primo ad augurarsi che ci riesca è il leader ucraino che dopodomani, venerdì 17 ottobre, tornerà alla Casa Bianca. Zelensky si è fatto precedere da una delegazione, atterrata ieri a Washington con una robusta lista di richieste. Gli ucraini vogliono ordigni più potenti, come i «Tomahawk», missili micidiali in grado di colpire un bersaglio a 2.500 chilometri di distanza.
Il confronto sul conflitto in Europa, dunque, riparte dalle armi. In questi giorni i media americani, a cominciare dal «New York Times», hanno celebrato il «fattore Trump»: il carattere, l’imprevedibilità del presidente sarebbero stati decisivi per convincere Netanyahu ad accettare il «piano di pace». Certamente avranno pesato anche i legami storici, politici ed economici tra Stati Uniti e Israele. Ma all’elenco andrebbe aggiunta anche la leva più potente: il Pentagono fornisce circa il 60% dei mezzi militari e delle munizioni usate dagli israeliani per radere al suolo Gaza. Un particolare che lo stesso Trump ha ricordato, con una certa malizia, nel discorso dell’altro giorno alla Knesset, il parlamento israeliano.
Tutto ciò non vale per Putin. Il «fattore Trump», almeno finora, non ha funzionato, come si è visto nel vertice di Ferragosto tra i due leader, in Alaska. Per quale motivo? Ci possono essere risposte diverse. Forse il legame personale tra «Vladimir» e «Donald» non è così stretto come, invece, sostiene un corposo filone di studiosi e osservatori. Oppure, Putin è sicuro che il suo amico americano gli offrirà condizioni ancora più vantaggiose per scendere a patti con gli ucraini. Alcuni dati, però, sono certi. È chiaro che l’America non abbia sulla Russia la stessa presa che ha su Israele. Tuttavia, potrebbe fare molto di più. Ma Trump dovrebbe accettare lo schema messo a punto da Zelensky: rafforzare la resistenza militare sul campo e, nello stesso tempo, colpire con più forza e continuità i depositi di petrolio e di carburante, le raffinerie di greggio nel territorio russo. Ecco a che cosa servono i «Tomahawk». Nelle scorse settimane, Trump ha dichiarato che gli ucraini «possono vincere la guerra», a condizione che «attacchino» anche obiettivi russi. Zelensky, ora, prova a tradurre queste parole in una svolta concreta del conflitto, per costringere Putin ad accettare la trattativa. Il calcolo del presidente ucraino è molto rischioso. Putin minaccia ritorsioni pesanti in Ucraina e avverte gli Usa e gli alleati europei: se lanciate i missili nella nostra terra, sarà guerra totale.
I governi occidentali stanno cercando un’altra strada per arrivare comunque al negoziato. I segnali non sono incoraggianti. Nel dibattito pubblico, spesso si dimentica che finora sono falliti almeno sei tentativi diplomatici. Sei. Il più spettacolare è stato quello compiuto da Trump a metà agosto. Ancora: il primo luglio scorso Emmanuel Macron era tornato a premere su Putin, con una telefonata di due ore. Negli ultimi due anni ci hanno provato, organizzando «conferenze per la pace», sia il principe saudita Bin Salman, a Gedda (agosto 2023), sia il governo svizzero, a Bürgenstock (giugno 2024). Infine si sono spesi a lungo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan e, su un altro versante, il Vaticano.
Ieri Trump ha invitato ancora una volta il leader turco a farsi avanti, anche se, in questo momento, Erdogan appare concentrato soprattutto sul futuro di Gaza.
Servirebbe, allora, una nuova iniziativa e, forse, sarà necessario rivedere anche alcune previsioni. È opinione diffusa tra le cancellerie che l’economia russa può collassare solo in due modi: o strangolando la produzione e l’esportazione di petrolio; oppure inondando il mercato di greggio, in modo che il prezzo del barile possa scendere sotto i 50 dollari.Non sta accadendo né l’una, né l’altra cosa. Trump ha imposto tariffe secondarie all’India, uno dei maggiori acquirenti del greggio russo, ma non alla Cina, il cliente numero uno dei russi. E nel 2025 la media della quotazione del petrolio si è attestata tra i 65 e i 68 dollari (ieri era a 58, ben al di sopra della soglia dei 50). Ciò significa che i grandi petrolieri, a cominciare dai Paesi del Golfo, ma anche dagli stessi Stati Uniti, non hanno aumentato a sufficienza la produzione. Come dire: ci sono anche altri strumenti su cui ragionare. Serve uno sforzo di «diplomazia creativa».
