bandiera Europa

Più aumenta il numero e l’eterogeneità dei partecipanti, più diventa difficile prendere decisioni, soprattutto se è richiesta l’unanimità

Il Consiglio europeo di domani dovrà affrontare una spinosa questione: il nuovo allargamento a Est dell’Unione. In sala d’attesa ci sono sei Paesi dei Balcani occidentali, più Ucraina e Moldavia. C’è poi il problema della Turchia (la cui candidatura è però di fatto congelata), mentre alla Georgia è stata per ora offerta solo la prospettiva di una futura candidatura.
Lo scorso 8 novembre la Commissione ha presentato un approfondito Rapporto sul potenziale di adeguamento agli standard europei da parte di ciascun Paese. Le difficoltà segnalate sono tante, ma la raccomandazione finale è quella di procedere senza indugi. Dopo l’aggressione ingiustificata da parte della Russia, l’ammissione dell’Ucraina è vitale per salvaguardare pace e stabilità nell’intero continente europeo. Come in passato, l’aspettativa di adesione è un prezioso incentivo per «europeizzare» le istituzioni in base ai principi fondamentali della Ue e alle regole del mercato unico. Dall’altro, l’inclusione di Paesi ancora esterni al sistema occidentale accresce le capacità dell’Unione nel contenere le minace esterne e le mire espansionistiche di Putin.
La dimensione geo-politica è oggi più importante che mai, la Commissione ha ragione. Occorre però prestare attenzione anche alle implicazioni interne dell’allargamento. L’adesione dei Paesi ex satelliti dell’Urss a partire dal 2004 ha creato molte tensioni ed è stata in larga parte responsabile della Brexit . Una volta entrate, Ungheria e Polonia hanno poi cominciato a erodere i pilastri dello Stato di diritto e a ostacolare di continuo il processo decisionale di Bruxelles, con la minaccia del veto.
In che misura la Ue è in grado oggi di metabolizzare l’ingresso di nuovi membri? Oltre alla capacità di allineamento dei Paesi candidati occorre valutare anche la cosiddetta capacità di assorbimento dell’attuale «casa» europea. È chiaro che il passaggio da 27 a 35 o 36 Paesi comprometterebbe l’effettiva governabilità dell’Unione. Più aumenta il numero e la eterogeneità dei partecipanti, più diventa difficile prendere decisioni, soprattutto se è richiesta l’unanimità. C’è poi l’aspetto economico-finanziario: come si alimenterà e come si distribuirà il bilancio Ue? È stato calcolato che in base alle regole attuali, ai nuovi Paesi potrebbero spettare fino a 250 miliardi di euro l’anno in sussidi, dati i loro bassi livelli di Pil pro capite. L’aspetto più delicato è però quello socio-politico. Come reagiranno i cittadini-elettori dei 27 all’inevitabile impatto del nuovo allargamento sulle loro condizioni di vita? All’arrivo probabilmente massiccio di molti nuovi lavoratori e delle loro famiglie, alla delocalizzazione di imprese in cerca di costi del lavoro più bassi? Alla riduzione dei trasferimenti Ue e/o all’aumento dei contributi nazionali? E quale sarebbe l’impatto sulle scelte di voto, sulla legittimità della Ue?
La Commissione ha esortato i governi a gettare il cuore oltre l’ostacolo e fare un lungimirante «investimento politico». Un richiamo legittimo e comprensibile nel nuovo contesto internazionale. Per investire occorre però avere un capitale disponibile. In politica, il capitale è costituito dalla quota di legittimità, fiducia e sostegno popolare diffuso di cui dispongono i leader di governo. Angela Merkel possedeva questo capitale e ha saputo saggiamente investirlo durante la pandemia, facendo digerire ai propri concittadini una misura così controversa come l’emissione di debito comune. Nessun leader europeo si trova oggi in una posizione simile, molti di loro governano sulla base di un sostegno precario e spesso sotto l’attacco di opposizioni anti-sistema.
Come in economia, anche in politica ci sono deficit buoni e cattivi. In linea di principio, un investimento nell’Ucraina meriterebbe senza dubbio un atto di coraggio, anche in assenza di un adeguato credito politico. Serve però la messa a punto di una duplice strategia.
Identificare innanzitutto le riforme che assicurino adeguate capacità di assorbimento interno: in particolare nuove regole decisionali (partendo dall’abolizione dell’unanimità), una autonoma capacità fiscale, un significativo incremento del bilancio. Non è necessario fare tutto insieme, subito e prima di aprire i negoziati di adesione. Ci deve essere tuttavia una roadmap condivisa, per quanto cadenzata nel tempo. Anche la riforma del Patto di stabilità dovrebbe essere raccordata a questa mappa. Un ritorno all’austerità, di nuovo ispirata dalla logica tedesca dello schwarze null, del deficit zero, rischierebbe di provocare tensioni sociali e politiche difficilmente gestibili se si aggiungesse anche l’impatto dell’allargamento.
Il secondo versante della strategia dovrebbe riguardare percorsi di ammissione. Fra il «dentro» e il «fuori» c’è un’ampia gamma di combinazioni intermedie. Ad esempio si possono immaginare diversi stadi di incorporazione (associazione, ingresso nel mercato interno, passaggio allo status di «nuovo membro» e così via). A ciascuno di essi corrisponderebbe l’accesso a qualche beneficio tangibile e ai processi decisionali che ne determinano i contenuti. Con una progressione fra stadi soggetta al rispetto di varie condizioni. Il carattere ibrido del sistema politico Ue consente una preziosa flessibilità che la Commissione non sembra aver colto. Ora spetta al Consiglio europeo saperla sfruttare.

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